Davvero le politiche ambientali danneggiano gli agricoltori? Nelle semplificazioni che stanno accompagnando l’approvazione il 6 maggio del decreto legge Agricoltura, con lo stop all’installazione degli impianti fotovoltaici a terra, sta passando l’idea che gli agricoltori guardano più ai loro interessi che all’ambiente e al futuro. In realtà, la situazione è più complessa e deve tenere conto delle difficoltà (economiche e non solo) di un settore quello agricolo strategico per la nostra economia, ma che sembra aver bisogno di aiuti pubblici, sussidi e detrazioni fiscali, per andare avanti. E c’è chi nel dl Agricoltura, per il quale il governo Meloni ha stanziato 130 milioni di euro, vede una strategia politica alla luce delle imminenti elezioni europee per evitare di rendere tesi i rapporti con gli agricoltori. Rapporti diventati difficili nei mesi scorsi con le proteste con i trattori che dilagavano a Bruxelles, inelle capitali europee compresa Roma davanti al Parlamento. In parte legate anche alle iniziative sulla riduzione delle emissioni dei gas serra. Così, tra cedimenti alle pressioni e concessioni (il Parlamento europeo ha respinto nel novembre scorso il Sustainable Use Regulation che nell’ambito del Green Deal prevedeva la riduzione dei pesticidi entro il 2030 in Italia si è arrivati all’approvazione del dl Agricoltura.
Gli accordi del G7
Testo che tra le norme introdotte, ha messo l’ultima parola sul delicato tema della individuazione delle “aree idonee agli impianti fotovoltaici” stabilendo all’articolo 6 (“Disposizioni finalizzate a limitare l’uso del suolo”) che quelle agricole non lo sono. I pannelli potranno essere posizionati sopra le stalle, le cantine, gli edifici per la trasformazione, ma non sui terreni che i piani urbanistici classificano come “agricoli”. Esclusi dal divieto quelli preesistenti, quelli già finanziati dal PNRR, quelli relativi a progetti di agrivoltaico, le aree vicine a cave, miniere, in concessione alle Ferrovie o agli aeroporti, vicino ad autostrade e ad impianti industriali.
Votato il provvedimento, si è scatenata una polemica tra le categorie degli agricoltori, le imprese che si occupano di energia alternativa e le associazioni ambientaliste. Una polemica per la verità, iniziata già alla vigilia del Consiglio dei ministri con la coalizione Cambiamo Agricoltura a cui aderiscono 90 sigle tra cui Slow Food Italia, FederBio, Legambiente, Wwf, che aveva manifestato forti perplessità e scritto alla premier. Il dibatito è proseguito anche all’interno di Palazzo Chigi con due ministri del governo Meloni, quello all’Agricoltura Francesco Lollobrigida che ha difeso il divieto e quello all’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin, che ha chiesto fino all’ultimo di riconsiderare lo stop all’agrivoltaico per scongiurare una battuta d’arresto degli investimenti necessari per conseguire gli obiettivi di transizione energetica. Obiettivi fissati dallo stesso governo solo il 30 aprile durante il G7 del Clima a Torino: raggiungere una potenza fotovoltaica di circa 50GW entro il 2030.
Stop al fotovoltaico: aumentano i costi
Ma come si può raggiungere l’obiettivo se si ostacolano gli impianti nel settore dell’agricoltura? Non ha dubbi Elettricità Futura, la principale associazione del settore elettrico italiano che mette in guardia anche sulla credibilità del nostro Paese di fronte all’Europa e agli impegni assunti per la decarbonizzazione: la strategia di procrastinare la transizione invece che accelerarla fa aumentare i costi.
“Lo stop al fotovoltaico mette a rischio i target sulle rinnovabili. In contrasto con l’impegno di triplicarle entro il 2030 assunto dal governo al G7 appena lo scorso 30 aprile. Potrebbe infatti innescarsi un effetto domino, con rialzi dei costi di realizzazione dei nuovi impianti e un aggravamento normativo e amministrativo“. Parole chiare che non lasciano spazio a dubbi, quelle dell’associazione che riunisce le aziende attive in Italia nella produzione di energia elettrica da fonti convenzionali e rinnovabili: paradossalmente l’energia che costa meno (un terzo di quella generata dai pannelli installati sui tetti), quella del fotovoltaico a terra diventa più cara. Oggi costa un terzo di quella generata dai pannelli installati sui tetti. Fare gli impianti nelle zone industriali, nelle cave e nelle miniere e in tutti gli altri luoghi da bonificare? “Queste fattispecie erano già state normate in precedenza dai vari decreti per le semplificazioni nel 2022 e 2023” fa presente Elettricità Futura che chiede invece di puntare su un Testo Unico per le autorizzazioni – “atteso da giugno 2023” – per riunire una volta per tutte le varie semplificazioni introdotte in questi anni. Non a caso il disordine burocratico è uno dei problemi segnalati dagli imprenditori agricoli, anche quelli più grandi.
Per i target sottoscritti dall’Italia servirebbe l’1% dei terreni
In Italia su quasi 12,8 milioni di ettari disponibili la percentuale di terreni agricoli a livello nazionale che già ospitano installazioni con i pannelli fotovoltaici è solo lo 0,13% ossia, 16 mila ettari. Per Italia Solare, che alla vigilia del Consiglio dei ministri aveva inviato una lettera alla presidente Giorgia Meloni, “Basterebbe l’1% dei terreni agricoli non occupati per realizzare il 50% dei 50GW richiesti al 2030 mentre l’altro 50% potrebbe essere installato sui tetti”. Anche Italia Solare fa notare il problema economico: “Con il blocco degli impianti si perdono circa 60 miliardi di euro: almeno 45 di investimenti privati diretti e 11 di imposte”.
Una via d’uscita: il decreto in stand by da tre anni
Una via d’uscita, in realtà, ci sarebbe ascoltando i pareri di chi questo mondo lo conosce bene: sarebbe sufficiente una volta per tutte individuare in modo chiaro le aree in cui si possono realizzare gli impianti fotovoltaici, salvaguardando quelle che per legge sono già classificate come idonee. Servirebbe un decreto ad hoc. Attualmente in stand by da quasi tre anni per via del mancato accordo con le regioni per l’individuazione delle zone in cui agevolare la posa degli impianti a terra. “Perché la diffusione delle rinnovabili non è in antitesi con l’agricoltura, anzi, è di grandissimo interesse per il mondo agricolo che come tutti paga le bollette impazzite a causa della crisi climatica e le speculazioni sul gas”, ribadisce Stefano Ciafani, presidente di Legambiente che ricorda: “Serve approvare in tempi brevi una norma contro il consumo del suolo, favorendo la rigenerazione urbana e la semplificazioni degli abbattimenti e ricostruzioni a partire da quelli nelle aree a rischio idrogeologico”.
Cedere alle proteste, tra sussidi e concessioni
Intanto dopo l’approvazione, esultano le confederazioni di categoria che considerano le politiche ambientali troppo rigide, mentre questa contrapposizione tra istanze ambientaliste e il mondo agricolo si fa sempre più profondo. Settore che, secondo l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), in Italia (insieme a Francia, Spagna, Francia e Germania che producono il 57% del valore legato al settore agricolo) contribuisce a circa l’8% delle emissioni nazionali. In effetti, le associazioni di categoria – secondo il loro punto di vista – qualche vittoria l’hanno ottenuta. Prima la rinuncia da parte di Bruxelles alla Sur (Sustainable Use Regulation) che era stata accolta positivamente, ora come il divieto al fotovoltaico sulle aree agricole. Ma di fatto, tutto questo sancisce uno squilibrio tra le scelte legate alle politiche agricole e quelle ambientali.
“Agricoltura contro ambiente: un paradosso”
“Lo stop alle rinnovabili serve a fini elettorali, non all’agricoltura. Era proprio quello che si doveva evitare: mettere uno contro l’altro due mondi che invece dovrebbero sostenersi a vicenda – spiega Serena Milano direttrice di Slow Food Italia associazione che pure era favorevole a non inserire impianti fotovoltaici sui terreni agricoli – l’abbiamo detto molte quanto sia paradossale questa contrapposizione. Si parte da un obiettivo giusto, quello di ridurre i combustibili fossili, ma poi si trasforma in qualcosa di devastante per i paesaggi e l’agricoltura. Frutto di una gestione politica sbagliata, di una strumentalizzazione del mondo agricolo a fini elettorali. La fertilità del suolo, la qualità dell’acqua, preservare la biodiversità sono i fondamenti dell’agricoltura. Un’agricoltura senza un suolo fertile non ha futuro nemmeno dal punto di vista economico”.
Trovare il giusto equilibrio
Un’idea Slow Food Italia ce l’ha. “Perché non cominciamo a mettere impianti fotovoltaici sui tetti degli uffici pubblici, i parcheggi, i capannoni industriali, le scuole e creare comunità energetiche – propone la direttrice Serena Milano – Non si può ragionare da un punto di vista settoriale, ma avere una visione di insieme. La politica dovrebbe fare questo, invece si va avanti facendo i conti con i propri corpi elettorali. Senza valutare gli effetti a catena”. Il famoso ”effetto domino” di cui parlano anche le azionde di Elettricità Futura.
Secondo Slow Food, il dl Agricoltura non ha risposto alle esigenze delle piccole e medie aziende agricole. Quasi tutte familiari e producono lavoro povero, in Italia sono la maggioranza e che in realtà chiedono da almeno dieci anni soprattutto due cose: il giusto prezzo del proprio prodotto e di essere aiutate nell’affrontare gli obblighi imposti dalla burocrazia.
Il giusto prezzo, altrimenti i contadini vendono la terra
“Sono queste le istanze principali di chi vive del lavoro dei campi, le aziende più piccole in perenne stato di precarietà – è sicura Serena Milano – Quelle che di fatto restano fuori dagli aiuti anche quelli che arrivano dall’Unione europea che stanzia per l’agricoltura un terzo degli investimenti. Ma l’80% dei fondi nazionali e internazionali va al 20% delle aziende più grandi, quelle che hanno più di 10 ettari seminativi. Le multinazionali che poi sono quelle che vendono pesticidi. Ai piccoli e medi agricoltori che lavorano ad esempio in montagna e nelle aree interne arriva poco o nulla di quei soldi. Invece, avrebbero bisogno di essere sostenuti, accompagnati verso la transizione energetica, l’innovazione. Sa invece cosa sta succedendo soprattutto in Sicilia o in Sardegna, ma anche in Piemonte, in Alta Langa dove ci sono pascoli bellissimi: nei luoghi dove l’agricoltura non è redditizia si vende alle multinazionali. Magari per fare impianti fotovoltaici. In Sicilia, grandi aziende cinesi hanno già acquistato terreni che nessuno coltivava più: nell’isola l’80% dei terreni agricoli a causa della crisi climatica e la siccità contiene solo il 2% di sostanze organiche, a causa dell’uso eccesivo di pesticidi. È l’anticamera della desertificazione. Oppure in Sardegna, dove si sfrutta la disperazione di contadini e allevatori per comperare la loro terra. Un altro esempio. La crisi climatica ha dimezzato la produzione del grano ovunque: se ad un contadino arriva la proposta di vendere e incassare, non ci pensa due volte. Anche i giovani ci provano a lavorare la terra, ma dopo due anni al massimo abbandonano. I costi sono alti e il prezzo dei proprio prodotti è basso. Bisogna mettersi al tavolo tutti e ragionare. Altro che contrapporsi. Ai piccoli agricoltori servono legislatori che li ascoltino progettando un percorso, partendo non dall’ideologia, ecologia sì o no, ma dall’innovazione. A proposito, mi ha colpito il silenzio assoluto in questa fase, ma anche quando sono scoppiate le proteste, della grande distribuzione“.
Trentatré centesimi
Sì, perché se un contadino riceve per un chilo di pane 33 centesimi di euro e il pane viene venduto al dettaglio a 3 euro al chilo, vuol dure che chi l’ha prodotto non ha alcun potere contrattuale sul suo lavoro. C’è una proposta che aspetta di essere presa in esame: quella di riconoscere per legge il costo di realizzazione dei prodotti come base di trattativa con i trasformatori e la grande distribuzione. Sarebbe un buon punto di partenza, ma giace in Parlamento. Ignorata. Come ha scritto Carlo Petrini, fondatore di Terra Madre: “L’agricoltura, che dovrebbe fondarsi su un’alleanza tra uomo e natura è diventata invece una guerra”.