E se la crisi climatica facesse bene ad alcune specie? L’ultima, sorprendente evidenza – legata allo studio di un team internazionale guidato dal paleobiologo Manuel A. Staggl dell’Università di Vienna – evidenzia le opportunità legate al global warming per squali e razze, che popolano gli oceani da 450 milioni di anni ma che vivono, da qualche decennio, un consistente declino delle popolazioni, legato alla pesca eccessiva e alla progressiva perdita di habitat. Ora, però, la scienza individua nell’innalzamento del livello del mare e nel riscaldamento della temperatura della acqua, in particolare di quelle costiere poco profonde, dei potenziali alleati per queste specie. “Proprio così. – annuisce Staggl – Gli habitat nei mari poco profondi, che coprono vaste aree continentali, sono veri e propri hotspot di biodiversità e squali e razze sono stati in grado di colonizzarli molto rapidamente e in maniera efficiente grazie alla loro adattabilità”. Del resto, è già accaduto in passato: le temperature a volte significativamente più elevate durante il Giurassico – (00-143 milioni di anni fa – e il Cretaceo – 143-66 milioni di anni fa – si sono tradotte in un’espansione delle aree tropicale e subtropicale, con vantaggi competitivi per gli elasmobranchi”.
1200 specie differenti che hanno resistito a cinque estinzioni di massa
Dall’analisi delle fluttuazioni climatiche tra 200 e 66 milioni di anni fa è così emersa la ricaduta positiva, su queste specie, dell’innalzamento delle temperature. Attenzione, però, a sostenere che la crisi climatica non sia, su linee generali, un processo in grado di minacciare la biodiversità. E del resto lo stesso studio, pubblicato sulla rivista scientifica “Biology”, dimostra che i livelli più elevati di CO2, che si traducono nella progressiva acidificazione dei mari, hanno un effetto “chiaramente negativo” anche su squali e razze. Che sono dei veri e propri “highlander” dell’evoluzione: i pesci cartilaginei hanno resistito a tutte e cinque le estinzioni di massa che hanno caratterizzato la storia del Pianeta. Il loro ruolo negli ecosistemi è prezioso, si contano 1200 specie differenti: di qui l’esigenza di comprendere gli effetti della crisi climatica sui pesci cartilaginei, tra i più resilienti alle fluttuazioni climatiche.
Per studiarne il passato, i ricercatori hanno analizzato i denti fossilizzati di squali e razze, confrontandoli con i dati climatici. “L’idea di base era proprio quella di comprendere quali fattori ambientali influenzino la diversità di squali e razze per sviluppare possibili scenari futuri in relazione all’attuale riscaldamento globale”, spiega Jürgen Kriwet, che insiegna paleobiologia presso l’Università di Vienna. Lo studio pone così l’accento sull’importanza di tre fattori ambientali: se, come anticipato, temperature più elevate e incremento di acque costiere basse hanno un effetto positivo, la maggiore concentrazione di anidride carbonica ha avuto un effetto negativo, contribuendo all’estinzione di singole specie di squali e razze, e continuerà ad averlo, suppongono i ricercatori, nel prossimo futuro. “L’ambiente sta cambiando in modo particolarmente rapido, probabilmente troppo perché gli animali e i loro ecosistemi riescano a sviluppare risposte efficaci”, annota Staggl, sgomberando infine il campo dai potenziali equivoci: “Pensiamo improbabile che questi predatori traggano grandi benefici dal riscaldamento globale. Per ridurre la pressione ambientale, sono dunque necessarie misure urgenti per proteggerli”. “Del resto, senza i predatori di vertice, gli ecosistemi collasserebbero”, sottolinea Kriwet: “Così, proteggendo squali e razze, investiamo direttamente nella salute dei nostri oceani e quindi in chi, noi per primi, trae vantaggio da questi ecosistemi”.
A causa della CO2 alterazioni sensoriali e cambiamenti nello sviluppo degli embrioni
“I risultati dello studio mettono in luce una dinamica cruciale e complessa nell’ecologia di squali e razze. – spiega Francesco Tiralongo, ittiologo dell’università di Catania, all’attivo diverse ricerche sugli elasmobranchi – Emergono dati che aumentano la nostra comprensione del passato, ma ci offrono soprattutto uno strumento fondamentale per prevedere come gli attuali cambiamenti climatici potrebbero influenzare questi predatori apicali e, di conseguenza, l’equilibrio degli ecosistemi marini. Se da un lato l’aumento delle temperature e l’espansione delle aree marine poco profonde sembrano favorire la biodiversità di questi predatori, emerge con forza l’effetto negativo delle elevate concentrazioni di anidride carbonica (CO2) sugli ecosistemi marini. Gli effetti fisiologici documentati, come alterazioni sensoriali e cambiamenti nello sviluppo scheletrico durante la fase embrionale, indicano che l’acidificazione degli oceani potrebbe compromettere le capacità adattative e la resilienza di queste specie nel lungo periodo. Per questo – conclude – occorre un impegno concreto nella mitigazione delle emissioni di CO2 e nella protezione degli habitat marini per garantire un futuro sostenibile sia per la fauna marina che per le comunità umane che da essa dipendono. Il legame tra livelli elevati di CO2 e la riduzione della biodiversità di queste specie è un segnale d’allarme che non possiamo ignorare”.