Il confine tra casi di greenwashing e prodotti veramente eco friendly può essere difficile da individuare. Non è sempre facile per il consumatore comprendere se gli aspetti del prodotto messi in luce dalla pubblicità siano solo per far sembrare verde ciò che verde non è. L’Unione Europea negli ultimi tempi ha ribaltato la strategia per contrastare il fenomeno del greenwashing che non deve essere più inteso solo come un’operazione di marketing, ma va considerato come pratica per diffondere informazioni ambientali ingannevoli importanti per la salute. I dati parlando chiaro. Secondo uno studio condotto dalla Commissione europea, esaminando i prodotti scelti dai consumatori è emerso che su il 39% di quelli dichiarati sull’etichetta “sostenibili”, ben il 59% non erano supportati da riscontri, ma solo da dichiarazioni “vaghe, fuorvianti o infondate”.
Il cambiamento viene dalle istituzioni
Il tema è considerato così urgente che la Commissione ha presentato un pacchetto di norme sulla Circular Economy per aggiornare le direttive riguardanti proprio i diritti dei consumatori e le pratiche commerciali sleali. Tra gli obiettivi del Green Deal? Garantire la possibilità di fare scelte sostenibili. Due i fronti: il primo è stabilire una volta per tutte il diritto dei consumatori di sapere per quanto tempo un prodotto è progettato per durare e come, nel caso sia possibile, possa essere riparato; il secondo riguarda il rafforzamento della protezione contro le affermazioni ambientali inaffidabili o false, vietando il greenwashing e le pratiche che ingannano i consumatori.
L’impatto delle norme sulla filiera del fashion
Uno dei settori maggiormente coinvolti alle nuove norme è il settore tessile, considerato tra i più inquinanti e meno sostenibil, parte di un circolo vizioso tra impatti ambenatli generati e subiti. L’industria della moda e la filiera della produzione tessile ad esempio, sarebbero responsabili di circa il 20% dell’inquinamento delle acque. Alcuni processi come la tintura, la finitura e il lavaggio di capi sintetici rilasciano ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari. E per quanto riguarda il riciclo, solo l’1% del totale delle fibre utilizzate nell’abbigliamento viene riciclato e trasformato in nuovi abiti. L’87% finisce in discarica o viene incenerito, mentre il 13% viene riciclato in usi di valore inferiore.
Dalla finanza etica alla finanza sostenibile
Si legge nello studio “Just Fashion Transition” condotto da The European House – Ambrosetti: “Il Green Deal dell’Unione europea e la Strategy for Sustainable Textiles promettono un’accelerazione sulla sostenibilità del settore fashion attraverso 25 linee di azione da implementare entro il 2027 e assicurarsi che entro il 2030 i prodotti venduti entro l’Unione europea siano duraturi, riciclabili, non pericolosi e a basso impatto sulla sostenibilità”. Solo per fare un esempio, le aziende non potranno più distruggere i prodotti invenduti. Non solo. “La finanza sta diventando una leva strategica per spingere il sistema delle imprese verso la transizione sostenibile in tutta Europa – spiega Carlo Cici, coordinatore dello studio – è infatti prevista una rendicontazione obbligatoria delle perfomance non finanziare per almeno mille aziende della moda europee che dovranno pubblicare anche le percentuali di ricavi allineati alla Tassonomia sulla finanza sostenibile. Inoltre, le dichiarazioni ambientali sul prodotto dovranno utilizzare un sistema di misurazione dell’impronta ambientale standard”.
Certificati e rating non assicurano trasparenza
Perché è necessario che la sostenibilità delle aziende venga misurata con un unico strumento? “Perché nonostante la diffusione e proliferazione gli attuali ESG (Environmental, Social e Governance) disponibili sul mercato per misurare e controllare le perfomance di sostenibilità non stanno portando il cambiamento tanto atteso”, spiega ancora Carlo Cici. Motivo? “Adottando ognuno criteri e metodi diversi, anche i risultati tra i più autorevoli e diffusi rating a livello globale assegnano alla stessa azienda valutazioni diverse sul tema della sostenibilità“.
400 certificati diversi
Oggi sul mercato esistono più di 400 certificati di sostenibilità applicabile al settore del fashion. L’82% riguardano solo i prodotti (le caratteriste e i materiali) mentre appena il 18% i processi operativi. Non è un aspetto secondario, visto che le certificazioni sono importanti per la riciclabilità dei prodotti in quanto indicano la composizione del capo di abbigliamento: un’informazione cruciale per il riciclo delle fibre.
Imprese della moda più concentrate su temi ambientali che sociali
Se metà degli strumenti di certificazione integra sia criteri ambientali che sociali, le certificazioni dedicate alle questioni sociali sono appena il 6%. Il 56% e il 45% delle aziende riferisce infatti le prestazioni in merito ai dipendenti e alla loro salute e sicurezza. Il 22% e il 13% stabiliscono impegni sugli aspetti legati al personale, mentre questi valori scendono al 19% e all’11% per la salute e la sicurezza.
Delle 100 più grandi aziende europee del settore della moda che ricadranno nel campo della Corporate Sustainability Reporting, 64 hanno già un approccio strutturato alla gestione della sostenibilità e sono le più grandi. Oltre il 95% rendiconta le perfomance e ha fissato obiettivi sul cambiamento climatico l’uso di materie prime e gestione dei rifiuti. La maggior parte degli sforzi delle aziende riguarda comunque il cambiamento climatico: il 60% ha fissato obiettivo quantitativi sulle emissioni di CO2, il 32% rendiconta le perfomance e le altre non trattano l’argomento. I modelli di business dunque stanno cambiando, ma per favorire la transizione serve una tabella di marcia precisa verso il 2030. “E soprattutto – dice ancora Carlo Cici – promuovere alleanze a monte a a valle della filiera della moda, creando comunità di professionisti. Nel più breve tempo possibile”.