Al Death Valley National Park, tra California e Nevada, hanno un grande problema: gli asini selvatici. Assetati e affamati, i burros (come li chiamano da quelle parti) si concentrano nelle pochissime zone umide di quest’area desertica, distruggendo la vegetazione nativa, calpestando e scavando i terreni fangosi e inquinando le sorgenti e le pozze d’acqua con i loro escrementi. Con impatti notevoli anche sulla fauna più iconica del parco come il bighorn, la pecora delle Montagne rocciose (Ovis canadensis) e la tartaruga del deserto (Gopherus agassizii).
In realtà i burros della Death Valley sono i discendenti degli asini domestici, arrivati nelle Americhe nel 1500 con i colonizzatori spagnoli e divenuti compagni indispensabili di pionieri e cercatori d’oro. Una volta passata la febbre dell’oro, gran parte degli asini è stata lasciata libera o è fuggita. I loro discendenti, ormai inselvatichiti, prosperano anche in un ambiente estremo come quello desertico, senza predatori, aumentando del 20% all’anno e costringendo il National Park Service, dopo decenni di catture utili solo a contenerne il numero e limitare i danni che creano a questo delicato ecosistema, a pianificarne la completa eliminazione.
Colpo di scena. Nell’estate del 2020, dopo oltre un anno di tentativi, un team di ricercatori guidato da Erick Lundgren, un ecologo dell’Università di Aarhus (Danimarca), cattura la prima prova fotografica della predazione di un asino selvatico da parte di un puma. La fotocamera riprende l’intera sequenza: dall’asino aggredito alle spalle e in preda al panico, al puma trionfante in piedi sulla preda morta. Non che mancassero gli indizi, come avvistamenti di puma che mangiano carcasse di asini o resti di asino negli escrementi del felino, ma fino a quel momento non vi era alcuna prova di predazione attiva.
Le immagini compaiono in un articolo recentemente pubblicato sull’importante rivista Journal of Animal Ecology insieme ai risultati ottenuti studiando con le fototrappole il comportamento dei burros in 14 zone umide presenti nel deserto, alcune delle quali frequentate anche dai puma. Nei siti in cui i puma erano assenti, probabilmente perché disturbati dai vicini insediamenti umani, i burros trascorrevano molto tempo (in media 5 ore e mezza) tra giorno e notte. Nei siti frequentati dai puma, invece, il tempo medio di permanenza si riduceva a soli 40 minuti, quasi mai nelle ore notturne, preferite dai felini per la caccia. Ma la cosa più interessante è che nei siti meno frequentati dagli asini, i ricercatori hanno rilevato una vegetazione molto più rigogliosa e gli ambienti attorno alle pozze d’acqua risultavano meno degradati dal calpestio. Detta in altri termini, la presenza del puma nella Death Valley riduce l’utilizzo delle zone umide da parte dei burros e aiuta a preservare un paesaggio più intatto e un ecosistema più sano.
Secondo i ricercatori siamo in presenza di un esempio di “cascata trofica”, cioè un fenomeno in cui un singolo tipo di predatore che caccia un determinato animale da preda può innescare una serie di effetti secondari in grado di modificare l’intero ecosistema. La reintroduzione del lupo a Yellowstone avvenuta nel 1995 è forse l’esempio più noto di effetto a cascata: dopo la scomparsa del predatore negli Anni ’30, i cervi erano cresciuti a dismisura con effetti visibili sul paesaggio dovuto all’eccessivo pascolamento sulla vegetazione. Una volta reintrodotto, il lupo ha ripreso il suo ruolo di predatore nei confronti dei cervi riducendone il numero e provocandone la dispersione sul territorio; la riduzione del pascolo dei cervi in particolare sulle giovani piante di salice e pioppo ha reso possibile una ripresa rigogliosa di queste specie arboree tipiche delle sponde dei corsi d’acqua e indispensabili per la sopravvivenza invernale dei castori. Ulteriore effetto è stato il ritorno stabile dei castori che hanno iniziato a costruire dighe e stagni, modificato l’idrologia dei corsi d’acqua e creato nuovi habitat per pesci, anfibi e uccelli.
Secondo il team coordinato da Lundgren la relazione tra puma, asini e vegetazione, dovrebbe far riconsiderare al National Park Service l’opportunità di perseguire l’eradicazione dei burros, sia perché la presenza dei puma impedisce loro di distruggere le zone umide, sia perché l’alterazione della cascata trofica potrebbe avere conseguenze nefaste come l’aumento della predazione del puma nei confronti della fauna nativa, primo fra tutti il bighorn del deserto, già reso vulnerabile dai cambiamenti climatici e dalle malattie. Di tutt’altro avviso Mark Boyce, eminente ecologo dell’Università dell’Alberta (Canada), che ha lavorato con i puma e le cascate trofiche, che ricorda che i burros sono pur sempre una specie aliena invasiva e “sarebbe un grave errore concludere che, poiché i puma uccidono gli asini, non è necessario rimuovere gli asini”. Per il momento il Parco sembra propendere per quest’ultima posizione e ha fatto sapere che non intende rinunciare al progetto di rimuovere gli asini selvatici a favore della biodiversità nativa
*Andrea Monaco è uno zoologo ricercatore dell’Ispra