Su questo Pianeta, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. È questo il postulato in forma più prosaica della legge di conservazione della massa, una delle pietre miliari su cui si fondano la fisica e la chimica moderna. Lo stesso principio si può applicare alla catena di produzione e consumo: tutti i beni che produciamo verranno consumati e, prima o dopo, diventeranno rifiuti accumulati in grandi discariche, qualora non riciclati. È ciò che sta accadendo nel deserto dell’Atacama, in Cile, dove giacciono almeno 39mila tonnellate di maglioni, jeans e t-shirt provenienti in prevalenza da mercati occidentali, dopo essere stati indossati per breve tempo. È la cosiddetta fast-fashion, sulla cui spinta la produzione globale di abbigliamento è più che raddoppiata nell’ultimo ventennio.
Secondo un nuovo report di France Press, queste tonnellate di vestiti invenduti o di seconda mano partono tutti gli anni da Europa, Asia e Stati Uniti, fanno tappa in Cina o Bangladesh e infine raggiungono il Cile. Un viaggio che descrive bene tutte le storture del consumismo di oggi e termina al porto di Iquique, nella zona franca di Alto Hospicio, residuo del governo militare di Augusto Pinochet. Una piccola parte prosegue il cammino verso la capitale Santiago, 1.800 chilometri a Sud, dove sarà rivenduta a prezzi stracciati in America Latina. Ma il grosso viene portato nel vicino deserto di Atacama, il più arido del mondo, perché le spese per il riciclo e lo smaltimento sono troppo alte, vista la bassa qualità dei capi.
“Il problema è che i vestiti spesso non sono biodegradabili – chiarisce all’AFP Franklin Zepeda – e non possono essere smaltiti nelle discariche cittadine per via dei composti chimici tossici che contengono”. Zepeda è il fondatore di EcoFibra, startup nata nel 2016 che produce pannelli isolanti per l’edilizia a partire da abbigliamento di scarto recuperato a Iquique. Una minima parte, perché il resto viene bruciato, sotterrato o lasciato tra le dune polverose di Atacama. La soluzione peggiore, visto che i tessuti sintetici o trattati con vernici e agenti chimici ci possono mettere anche 200 anni per degradarsi naturalmente, inquinando l’ambiente e il ciclo dell’acqua.
La fast-fashion e il super-consumismo
Dagli scaffali dell’outlet del centro, al deserto cileno nel giro di una manciata di anni; quando non mesi. Un ciclo che produce enormi danni ambientali, sociali e sanitari e poggia su condizioni di lavoro ai limiti dello sfruttamento e salari sotto la soglia di sopravvivenza. Ma cos’è la fast-fashion e perché ci riguarda tutte e tutti? La fast-fashion sta al vestiario, come i fast-food stanno al cibo. La moda veloce è ormai da anni il modello di business dominante del settore e si fonda su un patto non firmato tra mercato e consumatore, di cui spesso quest’ultimo non è nemmeno a conoscenza: l’industria offre continuamente abbigliamento nuovo e “aggiornato” a prezzi economici e il consumatore in cambio rinnova l’armadio comprando indumenti nuovi e gettando via quelli usati. Una logica di obsolescenza programmata applicata all’abbigliamento inventata dai grandi marchi della moda statunitensi ed europei che taglia fuori di fatto il concetto del riciclo, perché i capi sono di qualità troppo bassa per essere recuperati. I beni sono prodotti nelle grandi fabbriche del mondo contemporaneo – i Paesi in via di sviluppo – ma si rivolgono per la gran parte a mercati in Usa, Ue e Asia “occidentalizzata”, dove i consumatori comprano oggi il 60% in più dell’abbigliamento che compravano solo 15 anni fa.
Il peso della moda e delle scelte di consumo
La moda è una risorsa imprescindibile del settore manifatturiero, vale 2400 miliardi di dollari l’anno e impiega 300 milioni di addetti. Ma è anche il secondo maggior consumatore globale di acqua ed emette l’8% dei gas serra totali (più di quanto emettano ogni anno i voli internazionali e il commercio marittimo sommati). Un dato su tutti per capire davvero quanto le scelte che facciamo acquistando abbigliamento impattino ogni giorno sull’ambiente: per fare un singolo paio di jeans ci vogliono, in media, 7500 litri di acqua; la stessa quantità che una persona beve lungo un periodo di 7 anni.
La Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo ha stimato che la fashion industry “beve” più di 93 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno, abbastanza per soddisfare il fabbisogno di 5 milioni di persone. E c’è poi mezzo milione di tonnellate di microfibra finisce negli oceani come rifiuto, partendo dai nostri armadi. “Per molti anni anche noi cileni siamo stati i primi consumisti e nessuno sembrava accorgersi della quantità di tessuto prodotta e poi scartata”, ha spiegato Rosario Hevia ad AFP. Hevia è un’imprenditrice cilena e ha fondato nel 2019 Ecocitex, azienda che produce fibre tessili rigenerate a partire da abiti di scarto, senza utilizzare acqua o prodotti chimici sintetici. “Solo oggi le persone stanno cominciando a capire il peso delle loro scelte”, conclude Hevia. Non ci resta che ragionarci su, anche qui in Occidente.