Sono quasi sessanta i cetacei trovati morti nel Mar Nero in meno di un mese, almeno 33 quelli imputabili al disastro ambientale delle due petroliere Volgoneft affondate in dicembre. Lo stesso presidente Vladimir Putin ha parlato di “disastro ecologico” in conseguenza ai fatti avvenuti il 15 dicembre quando due petroliere russe, la Volgoneft-212 e la Volgoneft-239, sono affondate durante una tempesta nello stretto di Kerch, quello che collega il Mar Nero con il Mar d’Azov e si trova tra la Russia e la penisola ucraina della Crimea annessa da Mosca.

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Soltanto negli ultimi giorni, dopo che sono state già ritrovate decine e decine di uccelli morti o ricoperti di petrolio, così come varie specie di pesci deceduti, le associazioni ambientaliste e Ong come Delpha hanno denunciato l’insolito ed elevato numero di cetacei morti. Secondo Delpha si parla di una strage di almeno 33 delfini e la cifra totale di 61 mammiferi marini rinvenuti senza vita è decisamente “alta e insolita”, motivo per cui c’è una forte possibilità di collegamento con l’inquinamento creato dallo sversamento a mare del petrolio.

“Quasi ogni giorno riceviamo informazioni su nuovi decessi” precisano dall’associazione sottolineando come il livello di contaminazione sia significativo soprattutto per via “del petrolio fuoriuscito, olio combustibile pesante di grado M100, che affonda in profondità”.

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Si stima che le petroliere trasportassero oltre 9000 tonnellate di combustibile pesante e che circa il 40% si sia riversato in mare. Il ministero delle emergenze russo sostiene che sono già stati ripuliti oltre 70 chilometri di coste ma per via di onde e forti venti si teme che il petrolio possa continuare a raggiungere diverse spiagge della regione, in particolare a temere un nuovo disastro è ora soprattutto la Crimea. Alcune specie di focene, note come “delfini di Azov” nel Mar Nero, ritrovate senza vita, secondo le prime analisi sarebbero morte nei primi dieci giorni successivi al disastro ambientale e non è escluso che possano esserci diversi altri cetacei senza vita o che altri possano presto spiaggiarsi in vari luoghi nello stretto di Kerch. Alti livelli di contaminazione per esempio sono già stati individuati sulla costa di Yevpatoria dove, così come nella Sebastopoli in cui è stato dichiarato il regime di emergenza, gruppi di volontari e delle istituzioni locali stanno lavorando per le operazioni di bonifica.

Le immagini satellitari mostrano inoltre il pesante impatto del carburante sulle coste di Feodosia, Alushta e Sudak. Nell’area di Krasnodar, annunciano i russi, sono oltre 5mila le persone che stanno ancora lavorando per ripulire la fuoriuscita. Di recente il capo della Crimea nominato dalla Russia, Sergei Aksyonov, ha avvertito che l’impatto del disastro ambientale legato alla fuoriuscita di petrolio “si sta muovendo verso di noi” e c’è un forte rischio che anche le coste della Crimea possano pagare un alto prezzo legato all’affondamento delle petroliere.

Nel frattempo le associazioni ambientaliste, denunciando le difficoltà nell’affrontare l’emergenza, hanno chiesto anche l’apertura di un altro centro per poter curare gli uccelli ricoperti dal petrolio perché quelli aperti finora erano “insufficienti” ad affrontare il problema. Il vero timore di tutti però, dalle autorità russe sino ai volontari, è quello che si potrebbe scoprire nel tempo: il combustibile coinvolto nell’incidente è infatti estremamente difficile da ripulire e mancano tecnologie per riuscirci dato che essendo particolarmente denso e pesante non galleggia in superficie ma affonda, andando ad intaccare pesantemente gli ecosistemi marini.