Elevata umidità, temperature sopra i 33 °C, vento quasi assente. Il corpo umano perde la capacità di dissipare il suo calore interno tramite il sudore e può raggiungere in breve tempo anche i 40 °C. A queste condizioni, nel giro di 10-15 minuti, aumentano il ritmo di respirazione e le pulsazioni, e poi mal di testa, nausea, confusione: è l’heat stroke, il colpo di calore, un evento che, se non curato, può portare a serie complicazioni e addirittura alla morte. Colpisce decine di migliaia di persone ogni anno. I più a rischio? Chi è costretto a lavorare all’esterno, in pieno sole e nelle ore più calde. Un esempio sono i settori delle costruzioni, delle pulizie, della pesca, dell’agricoltura o del turismo.
Le linee guida, sia in Europa che negli Stati Uniti, prevedono che, nelle giornate più dure, il lavoratore rallenti l’opera, si idrati e faccia spesso pause all’ombra per permettere al suo corpo di rimanere in condizioni di sicurezza. Nonostante ciò, nel 2019, sono state 356 mila le vittime collegate a temperature e umidità estrema secondo Lancet. In prevalenza anziani, lavoratori e anziani lavoratori. Insomma, in un mondo che diventa sempre più caldo, dove le ondate di calore “storiche” sono oggi fino a cinque volte più frequenti rispetto a 50 anni fa, diventa fondamentale capire come adattarsi. E, in particolare, come minimizzare il rischio per circa 275 milioni di persone soggette a condizioni di calore e umidità sulla soglia dell’heat-stress, la “premessa” del colpo di calore.
Caldo umido più frequente: vittime e danni economici
Riparare strade, raccogliere ortaggi, costruire ponteggi o edifici. Sono solo alcuni dei lavori che diventeranno quasi impossibili da svolgere nei pomeriggi d’estate in un mondo più caldo di 2 gradi rispetto a oggi. Il parametro chiave è la WBGT, acronimo di Wet bulb globe temperature, un indice che valuta il rischio di stress termico dei lavoratori. Con una media mensile di WBGT superiore a 34 °C non ci sono condizioni di sicurezza per svolgere lavori “pesanti” all’esterno: anche individui giovani e senza patologie pregresse andrebbero incontro all’heat stroke.
In zone densamente popolate e considerate “le fabbriche del mondo”, come Cina e India, la WBGT supera valori limite con frequenza più che doppia rispetto a 40 anni fa. E a preoccupare non sono solo i dati di salute pubblica, ma anche quelli economici. Allo stato attuale, le perdite in termini di produttività associate alla riduzione dei ritmi di lavoro per esposizione al calore sono stimate tra i 280 e i 311 miliardi di dollari ogni anno. La maggior parte dei danni economici si ripercuotono, nemmeno a dirlo, su Paesi a basso e medio reddito, i meno responsabili del riscaldamento globale e i più dipendenti dal lavoro outdoor pesante, spesso poi “esportato” nel ricco occidente.
Smettere di lavorare nelle ore più calde, per legge
Ma come alleviare allora il peso, che in questo secolo altro non farà che aumentare sulla spinta del riscaldamento globale antropico, specie in zone meno sviluppate e a basse latitudini come Africa e Asia? Ad aiutarci a rispondere a questa domanda c’è Luke Parsons, un giovane ricercatore alla Nicholas School of Environment della Duke University, che coordina un gruppo di ricerca interdisciplinare con altri scienziati della Washington University e di Stanford. La loro tesi, condivisa con gran parte della comunità scientifica internazionale, è che dovremo adattare i nostri ritmi e orari di lavoro alle condizioni meteo sempre più calde e umide.
Come? “Trasferendo parte del lavoro dalle tre ore più calde della giornata alle tre più fresche”, risponde Parsons. Nessuna diminuzione di orario: solo una sostituzione, che tuttavia garantirebbe il recupero di almeno il 30% delle perdite in termini di produttività scontate oggi. In un articolo pubblicato su Nature Communications, Parsons e colleghi identificano anche gli hotspot in cui rischi in termini di salute pubblica e perdite economiche saranno più severi: da un lato India, Cina, Pakistan e Indonesia i Paesi con centinaia di migliaia di persone esposte, e dall’altro Bangladesh, Thailandia, Gambia, Senegal, Cambogia, Ghana e Sri Lanka che soffrirebbero invece i danni pro-capite più elevati. Perdite che subiranno anche Paesi del Golfo persico come Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Qatar.
Nemmeno Stati Uniti ed Europa sarebbero risparmiati, ma avrebbero naturalmente strumenti più efficaci per arginarli. “Vorrei prima di tutto che venisse riconosciuto il pericolo dell’esposizione al calore – spiega Parsons – sia per il benessere e per la vita stessa dei lavoratori, sia per l’economia”. Quello che la comunità scientifica chiede, in concreto, è che la questione entri nei report sui costi e benefici della limitazione del global warming che oggi poggiano sui tavoli di decisori e policymakers. “Spero che si accenda quanto prima un faro su quanto ferocemente il cambiamento climatico stia già impattando sulle persone che dipendono direttamente o indirettamente da lavori outdoor”, aggiunge il ricercatore.
Più riscaldamento, meno lavoro e più danni
Sono 228 i miliardi di ore lavorative perse ogni anno da centinaia di migliaia di lavoratori costretti a lavorare in condizioni disumane. Caldo e umido in media fanno perdere 4-5 minuti ogni ora: bisogna rifiatare, bagnarsi, rifugiarsi all’ombra. In tutto un’ora persa ogni 12 lavorate. L’esposizione al calore estremo cresce più o meno linearmente con il riscaldamento globale (a incrementi di temperatura di 1 o 2 °C corrispondono aumenti proporzionali di individui esposti). Ma sono i danni collegati ad aumentare esponenzialmente: le zone più dipendenti dal lavoro outdoor, come i tropici, sono anche quelle in cui temperatura e umidità aumentano più velocemente che altrove. Tradotto, più ore di lavoro e produttività perse, più danni economici.
E così, nello scenario di riscaldamento di +2 °C, il conto delle perdite arriverebbe addirittura a 1.6 trilioni di dollari all’anno, una cifra quasi pari al Pil del Canada, decimo Paese più ricco del mondo. “L’analisi mostra – nota ancora Parsons – che se da qui in poi limiteremo l’aumento di temperatura a 1 °C rispetto ai livelli di oggi, riusciremo a evitare le perdite di ore lavorate e produttività semplicemente spostando le ore di lavoro pesante nelle prime ore della giornata, più fresche”. E conclude: “se il riscaldamento supererà +1°C rispetto ai livelli di oggi, è tutto molto più complicato: diventa esponenzialmente peggio con ogni centesimo di grado in più”.