Nel 2022 abbiamo pubblicato un documento di posizione sull’allevamento che muove da una premessa specifica dirimente: gli animali non sono solo un elemento redditizio. Sono soggetti senzienti, con i quali tendere a generare relazioni – almeno – di rispetto.   

 

Decenni di studi etologici hanno stabilito che gli animali, anche quelli allevati per il nostro nutrimento, “sentono”. Tali risultati hanno ispirato normative europee che ci pongono all’avanguardia a livello mondiale, sebbene nei fatti la realtà è ancora molto distante dalle prescrizioni di legge. Inoltre, uscendo dalla logica antropocentrista che ha connotato gli ultimi due secoli, Slow Food tende ad usare il termine “rispetto” piuttosto che “benessere animale”: il rispetto dell’etologia animale infatti dovrebbe consentire di vivere in maniera adeguata alla loro specie, piuttosto che secondo parametri umani.

Le idee

Quando la zootecnia ci salva la vita

di Giuseppe Pulina*

Le critiche più facili, ma anche le meno attente a ciò che facciamo e che scriviamo, sono sempre legate ad una nostra presunta visione nostalgica: riteniamo al contrario che la nostalgia sia propria di tutti coloro che tenacemente resistono al cambiamento e intendono perpetrare il modello che ci ha portato all’attuale stato di degrado ambientale, e anche relazionale.

 

Le nostre posizioni, tutt’altro che passatiste, guardano ad un modello di produzione alimentare che ribalti l’attuale e i paradossi insopportabili che genera (spreco alimentare e fame, emissione di gas climalteranti, contaminazione delle falde acquifere, depauperamento della fertilità del suolo, perdita di biodiversità), in grado di garantire un futuro alle nuove generazioni invece che inficiarlo.

 

Non abbiamo mai scritto a favore dei “bei tempi andati”: sappiamo bene che il passato è fatto anche di povertà e sofferenza – umana e animale – e che la modernizzazione della produzione alimentare ha contribuito all’accessibilità del cibo. Ma i costi che paghiamo per ottenere un cibo più economico – non sempre ormai così salubre – non sono più accettabili.

Soluzioni narrate come irrinunciabili sembrano scelte fatte per tutelare gli interessi di alcuni invece che il bene di tutti, e in quel “tutti” contempliamo gli animali, l’ambiente, e anche i lavoratori a contatto con gli animali.

Alle esigenze di chi risponde la scelta di concentrare nell’abusata pianura italiana (cementificata al ritmo di 21 ht a giorno) stalle con migliaia di capi che hanno innegabili impatti ambientali? La maggior parte delle aziende spande liquami, privi di paglia e non fermentati, sui campi: liquami che, non riuscendo ad essere totalmente utilizzati dalla vegetazione, finiscono nelle falde.

Alle esigenze di chi risponde l’enorme impiego di soia, imprescindibile nei mangimi?

Soia che proviene prevalentemente dal Brasile e dall’Argentina, dove si deforesta per coltivare monocolture ogm e si cacciano comunità locali. Certamente non risponde alle esigenze degli argentini che hanno visto aumentare del 1000% gli agrochimici negli ultimi venti anni a causa del dilagare della monocoltura della soia ogm. 

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Alle esigenze di chi risponde il ricorrere di malattie? Scarsa fertilità, zoppìe, elevata incidenza delle mastiti, precoce mortalità: nessun tecnico onesto può negare che queste condizioni, tipiche degli allevamenti industriali, siano segnali di disagio e di sofferenza. Dove si offre agli animali contatto con la natura, consentendogli movimento in spazi aperti per buona parte dell’anno, essi vivono e sono fertili a lungo. Negli allevamenti industrializzati i veterinari si trovano quotidianamente a curare animali giovani ma già ammalati.

Alle esigenze di chi risponde l’omologazione genetica che seleziona animali massimamente produttivi ma ovviamente fragili? Segnaliamo che in Italia siamo già oltre il limite di consanguineità che la Fao ha stabilito per il mantenimento della variabilità genetica a lungo termine tra le frisone. Inoltre, un report di gennaio 2023 dell’EPHA (European Public Health Alliance) riporta che in Italia, come in Spagna e Polonia, si somministra 10-20 volte (per capo di bestiame) la quantità di antibiotici usati nei più virtuosi paesi nordeuropei.

 

Si vive di più (e siamo più alti) perché mangiamo regolarmente certo, per le infinitamente migliori condizioni igieniche, per i progressi fatti dalla medicina e dalla chirurgia, per un diffuso generale benessere rispetto alle condizioni di estrema povertà e dura fatica di un passato che non rimpiangiamo. 

È vero infatti, che dagli anni Sessanta abbiamo quintuplicato il consumo pro-capite di carne, eppure AIRC raccomanda di non superare la dose settimanale di 350-500 gr, mentre in Italia siamo a circa kg 1,5 settimanale a testa di media. Ad un consumo eccessivo di carne, soprattutto rossa, soprattutto processata, è correlato un aumento del rischio di ammalarsi di cancro e di malattie cardiovascolari. Oggi la medicina suggerisce un approvvigionamento proteico variegato, o addirittura primariamente vegetale, grazie alla grande gamma di legumi che abbiamo a disposizione. Ma soprattutto l’approccio One Welfare ci insegna che il benessere è risultanza di equilibrio tra salute fisica ed emotiva, tra sfera individuale e collettiva, tra il contesto dell’abitare e l’ambiente che ci ospita.

Il modello di allevamento a cui tendiamo è nuovo, non antico: un modello agroecologico che tutela la biodiversità (delle razze animali, delle specie e varietà vegetali e anche del suolo), risorsa per i territori e opportunità di reddito per gli allevatori; un modello che tende ad integrarsi con l’ambiente, che considera i ritmi naturali, che osserva gli animali e i loro bisogni con occhi attenti e sensibili. È un modello che tiene insieme invece di separare, che richiede un ripensamento del nostro rapporto con la natura: considerandoci con umiltà parte del tutto che ci include.

 

(*Barbara Nappini è Presidente del Consiglio Collettivo Slow Food Italia)