Nel deserto ci sono animali e piante che crescono e si nutrono come in altri biomi, ma è più difficile vederli. Così, per studiare in che modo alcune specie si adattano a un ambiente ostile come il deserto di Lut, in Iran, dove le temperature superano spesso i 65 °C i ricercatori hanno optato per un metodo diverso, ottenendo informazioni non soltanto su un animale, ma sulle interazioni tra prede e predatori notturni del luogo.
Purtroppo sei esemplari di geco ragno di Misonne (Rhinogecko misonnei), specie di lucertole che vive appunto nel deserto di Lut sono finiti sbudellati sotto i microscopi degli scienziati per comprendere come si può sopravvivere in uno degli ecosistemi più caldi della terra, dove per le temperature estreme la vita fatica a prosperare, tanto che per anni gli ecologi hanno considerato quest’area per lo più sterile.
A trovare nel geco ragno gli indicatori della vita nel deserto non è stato un erpetologo, ma un entomologo, Hossein Rajaei, del Museo Statale di Storia Naturale di Stoccarda, in Germania, che con i colleghi ha analizzato il contenuto dello stomaco dei sei gechi usando il Dna metabarcoding, una tecnica che confronta pezzi di Dna con un database di identificazione delle specie, come uno scanner di codici a barre in un negozio di alimentari. “È molto accurato, molto completo e molto affidabile”, ha spiegato Rajaei a Science.
Nel brodo digestivo prelevato nello stomaco dei gechi i ricercatori hanno individuato il Dna di ben 94 specie. Una sorpresa per un animale che vive in una zona in cui ci dovrebbe essere ben poca vita. E infatti, le prede in questione provengono per circa l’81% da aree al di fuori del deserto di Lut. Si tratta però per la maggior parte di insetti alati, come mosche, falene e vespe, che migrano attraverso il deserto dai paesaggi temperati confinanti. Le altre specie delle quali è stato trovato il Dna, come aracnidi, artropodi e altre falene, sono invece endemiche del Lut, ma sono comunque poco visibili nel cuore del deserto, punto in cui erano stati prelevati i gechi.
Antonello Provenzale, direttore dell‘Istituto di geoscienze e georisorse del Cnr e autore di Coccodrilli al Polo Nord e ghiacci all’Equatore. Storia del clima della Terra (Rizzoli) sottolinea che la scoperta mostra una volta di più che in ambienti ostili la vita è presente, ma si mostra in maniera diversa. “Certo non possiamo aspettarci nel deserto una vita con la stessa densità e biomassa che osserviamo in una foresta o ai tropici – chiarisce Provenzale – tanto più che, come dimostra lo studio in questione, è difficile vederla. A seconda degli ecosistemi le relazioni tra individui e specie sono diverse: in una foresta equatoriale sono quasi immediatamente visibili le dinamiche che collegano per esempio un rettile a una pianta, o una specie con il suo predatore. In ambienti estremi come i deserti conta invece il vincolo ambientale, cioè il modo in cui ciascun organismo si adatta alle condizioni estreme”.
“Non a caso – continua il ricercatore – nel 1994 i biologi del deserto proposero per le specie che meglio si adattano a condizioni estreme la definizione di “ingegneri dell’ecosistema“, proprio perché alcuni organismi non solo si adattano al bioma, ma sviluppano meccanismi per cambiare queste condizioni. Per esempio nel deserto dove piove poco ci sono arbusti che creano oasi di fertilità intorno a loro, poiché si sviluppano modificando le condizioni della sabbia, in modo che possa trattenere più acqua. Stessa funzione hanno alcuni isopodi simili ai porcellini di terra, che scavano gallerie facendo sì che l’acqua si raccolga in alcuni punti”.
“Nei deserti – conclude Provenzale – c’è molta più vita di quante vediamo e conosciamo, perché si è adattata e ha modificato alcune condizioni ovunque ed è affascinante scoprire sempre nuove frontiere: ad esempio, uno dei campi affascinanti è quello della deep biosphere, la “biosfera profonda”, in cui si osservano forme di vita tra uno e due chilometri sotto terra, in ambienti privi di luce e ossigeno”.