Tempo di grandi pulizie? Mettete da parte scopa e rastrello insieme con l’italica passione per le aiuole perfettamente ordinate e leggete questo articolo. Una ricerca della Facoltà di Scienze dell’Università di Copenaghen pubblicata da Science Daily rivela che lasciando in giardino foglie e “rametti” senza portarli in discarica daremmo un grande contributo alla lotta al riscaldamento globale. Quelli che consideriamo rifiuti verdi, infatti, sono regali di natura che immagazzinano anidride carbonica, aiutano la biodiversità e ci fanno risparmiare. Vediamo come e perché valorizzare questi materiali, alla vigilia della Settimana europea per la riduzione dei rifiuti, dal 19 al 27 novembre.
“Circular gardening”: l’economia circolare entra in giardino
Non buttare nel cestino foglie e rametti abbassa di parecchio il nostro impatto ambientale. Lo studio citato snocciola i dati della Danimarca, Paese che sta agendo seriamente per contenere le emissioni di gas serra, prevedendo il 70 per cento di riduzione entro il 2030. Qui, ogni anno cittadini e giardinieri conferiscono mille tonnellate di scarti verdi ai sistemi di smaltimento. “Le foglie sono piccole riserve di carbonio, costituite in gran parte dal gas CO2 che assorbono dall’aria. I minerali assorbiti dal suolo rappresentano meno del 5% di una foglia”, ha spiegato Per Gundersen, professore di ecologia forestale presso il Dipartimento di Geoscienze e Gestione delle Risorse Naturali dell’Università di Copenaghen. “Quando rami e foglie vengono bruciati per produrre energia o compostati, l’anidride carbonica in essi contenuta viene restituita all’atmosfera molto rapidamente. Mantenendoli in giardino, viceversa, il processo di decomposizione è notevolmente più lento. Ciò significa accumulare carbonio sotto forma di ramoscelli, rami secchi e foglie. Se tutti si impegnassero a gestire questi rifiuti nel proprio giardino, potremmo immagazzinare 600.000 tonnellate di CO2 l’anno”, afferma lo studioso. Una riduzione rilevante, che fa anche bene alle piante. Tenuto conto che le foglie impiegano da 3 a 6 mesi per iniziare a sbriciolarsi, i ramoscelli e i rami ci mettono da 2 a 5 anni e i tronchi da 10 a 20 anni, come utilizzarli?
Cadono tante foglie? Usiamole per fare la pacciamatura
Il naturale destino delle foglie cadute è di venire accumulate dal vento sotto gli alberi e i cespugli, per tornare a nutrire le radici. Imitando la natura, utilizziamone uno strato spesso fino a 10 centimetri per coprire il terreno tra le piante perenni, intorno alle verdure dell’orto, vicino agli arbusti o sotto le siepi, predisponendo quella che in gergo tecnico si chiama pacciamatura naturale. Tale pratica ha diverse funzioni. La “coperta” di foglie protegge il suolo dal sole, favorendo lo sviluppo di microrganismi, funghi e batteri utili e conservando l’umidità; inoltre, impedisce la nascita delle erbe infestanti. Infine, la pacciamatura dà ospitalità a una miriade di insetti e protegge le radici dal gelo. “Le foglie dei tigli e dei frassini sono particolarmente adatte a scomparire rapidamente dai giardini. Quelle di quercia e alberi da frutto si disgregano più lentamente, il ché le rende ideali per l’isolamento del suolo intorno a bulbi o ortaggi”, esemplifica Gundersen. Sempreverdi come lecci, corbezzoli, Magnolia grandiflora, fotinia e lauri danno foglie ancor più resistenti, perfette per pacciamare le piante più sensibili al gelo, come dalie, calle, canne da fiore e gelsomini di Sicilia. Anche i resti della potatura delle siepi possono essere equiparati alle foglie. Le cimette di conifere come il cipresso leylandii o l’abete di Natale, così come gli aghi di pini e cedri, per esempio, sono perfetti sotto le azalee, i rododendri, le camelie e le ortensie, perché acidificano il terreno, andando incontro alle esigenze di questi fiori. E persino gli scarti delle verdure possono essere impiegati insieme con le foglie degli alberi per pacciamare l’orto, come suggerisce la permacultura. Con il tempo, questa pacciamatura si decompone, diventando concime (lo sfatticcio, da mescolare anche al terreno dei vasi).
No ai soffiatori, sì all’humus del terreno
“Quando microrganismi, vermi e altri decompositori fanno la guerra alle foglie, una piccola parte di esse diventa humus, nome comune per il complicato materiale organico che impiega molto tempo a decomporsi ed è di grande importanza per la salute delle piante”, ha affermato il professor Gundersen. “Un alto contenuto di humus nel terriccio crea un terreno scuro che ha una buona struttura e trattiene bene acqua e sostanze nutritive, il che è importante se vogliamo che le nostre piante prosperino”. La vita ospitata tra le foglie in decomposizione e nei primi strati di suolo, insieme con l’humus costituiscono uno tra i maggiori serbatoi di carbonio organico. Bando, dunque, ai soffiatori, come ha auspicato la ministra dell’agricoltura tedesca Silvia Bender, già ministra dell’ambiente: “raccomando di non utilizzare questi dispositivi da parte dei privati e di impiegarli nel settore pubblico solo quando è indispensabile, perché oltre all’impatto negativo sulla biodiversità del suolo devono essere prese in considerazione le loro emissioni sonore (fino a 120 decibel, ndr) e perché oltre ai batteri del terreno, diffondono nell’aria anche i patogeni contenuti negli escrementi dei cani”. Affermazioni avallate da più studi.
Fare tesoro dei rami secchi con il cumulo e la “siepe morta”
I rami più lunghi, ben ripuliti, possono diventare tutori per l’orto e per i fiori. Le ramaglie, invece, sono preziose per costruire il cumulo di rami, piccola struttura in auge nei frutteti inglesi, ora adottata anche in alcuni parchi italiani. Si tratta di costruire un mucchio di ramaglie di diverso spessore a forma di cupola, alternando fusti grossi e fini. Posizionato al piede di alberi e arbusti, il cumulo di rami serve per incrementare la biodiversità nei coltivi, nei boschi e nei giardini, perché vi trovano rifugio ricci, rospi, artropodi, bombi, lucertole, scriccioli e pettirossi, animali che peraltro tengono a bada i parassiti.
Per riutilizzare le ramaglie in maniera ancor più scenografica si può invece costruire una “dead hedge”, ovvero la “siepe morta”, barriera che al contrario del nome è un “catalizzatore di biodiversità” e funziona benissimo per tracciare i confini e come frangivento. Questa forma di recinzione risale al Medio Evo, quando doveva impedire a cervi e cinghiali di entrare nei parchi; oggi è utilizzata nei Paesi Nordici. Basta piantare in terra due file di paletti e poi riempire lo spazio tra essi di ramaglie. Qui l’esempio di come realizzare una siepe morta, a cura dei volontari del giardino condiviso San Faustino, a Milano.
La seconda vita degli alberi
È seccato un albero? Un tronco posto in orizzontale diventa subito una panchina in sintonia con l’ambiente. I primi a colonizzarne il legno saranno i coleotteri, scavando gallerie per deporre le uova. Le loro larve daranno cibo ai picchi e altri animali e i fori saranno colonizzati da api e vespe solitarie, ottimi impollinatori. Per accelerare il processo, facciamo dei fori orizzontali nel legno con un trapano. L’abbondanza di vita renderà il nostro verde molto più interessante ed ecologico. Sappiate, oltretutto, che la Royal Horticultural Society inglese, la più importante istituzione di ricerca in materia, ha appena raccomandato la massima attenzione alla sostenibilità ed ha istituito al suo interno la figura dell’ecologo senior che aiuterà a portare la natura nella vita delle persone trasformando i giardini in habitat. Basta mania di controllo, dunque: un verde più naturale è anche più alla moda.