Riprendere a scavare, oltre che raffinare e riciclare. La corsa ai materiali rari con i quali si costruisce la tecnologia come la transizione ambientale, passa per quelle materie prime che non abbiamo ma che forse il nostro territorio e i nostri fondali marini nascondono. Smartphone, batterie, processori, pannelli solari, turbine eoliche, hanno bisogno delle miniere dalle quali arrivano cobalto, nichel, litio, rame e terre rare. E così per essere più indipendenti dalle importazioni da Paesi scomodi, dare maggiore spinta alla digitalizzazione e abbattere le emissioni di gas serra, in Europa se ne vogliono aprire di nuove e riportare in funzione le vecchie. Con uno strano cortocircuito, o ossimoro che dir si voglia, mettendo in relazione sfruttamento dei giacimenti e una migliore difesa del pianeta.
Di sicuro bisognerà fare presto: il 16 marzo la Commissione europea ha presentato una serie di linee guida chiamate Critical raw materials act con alcuni obiettivi ambiziosi per il 2030. “Le materie prime essenziali sono indispensabili per un’ampia gamma di settori strategici, tra cui l’industria a zero emissioni, quella digitale, l’aerospaziale, la difesa”, si legge nella proposta. “Mentre si prevede che la domanda di questi materiali aumenterà drasticamente, l’Europa dipende fortemente dalle importazioni, spesso da fornitori di paesi terzi quasi monopolistici. L’Ue deve attenuare i rischi connessi a tali dipendenze strategiche per migliorare la sua resilienza economica, come evidenziato dalle carenze all’indomani della Covid-19 e della crisi energetica seguita all’invasione russa dell’Ucraina. Perché ciò può mettere a rischio gli sforzi per raggiungere i suoi obiettivi climatici e digitali”.
Oltre a un elenco aggiornato di 34 materiali essenziali, il Critical raw materials act ne individua una serie più ristretta e strategica per settori chiave con obiettivi chiari per tutte le nazioni dell’Unione da raggiungere entro la fine della decade: almeno il 10% dell’estrazione di quanto consumiamo all’anno deve essere sotto controllo dell’Europa e almeno il 40% della trasformazione; oltre il 15% del deve derivare dal riciclo e non più del 65% di ciascuna materia strategica in qualsiasi fase deve proveniente da un unico paese terzo.
L’indipendenza mineraria
“Possono sembrare poca cosa quei numeri ma non lo sono. In particolare il tetto al 65% all’importazione di materie strategiche da un solo Paese terzo”, racconta Pier Luigi Franceschini, a capo della divisione Raw Materials dello European Institute of Innovation and Technology (Eit) per il centro e sud Europa. Ente poco conosciuto ai più, ma che dal 2008 svolge un ruolo fondamentale identificando e co-finanziando l’innovazione in diversi campi fra startup e progetti. La divisione di Franceschini è nata nel 2015, quando ci si rese conto che in fatto di materie prime bisognava cambiare rotta.
L’ambizione degli obiettivi europei è nei numeri della situazione attuale, che sono mediamente peggiori di quelli legati alla dipendenza di gas e petrolio di cui si parla più spesso. Il 97% del magnesio che utilizziamo viene ad esempio dalla Cina. È il terzo metallo più utilizzato nella costruzione dopo ferro e alluminio, fondamentale per altro anche per produrre leghe con una lavorabilità elevata. Le terre rare, 15 elementi chimici più altri due con proprietà simili, essenziali nell’elettronica, sono controllate per un verso e per l’altro al 90% da Pechino. Per non parlare del cobalto che si usa nelle batterie: al 63% arriva dal Congo e viene lavorato in Cina nel 60% dei casi. Allo stato attuale è quindi evidente da chi l’Europa cerca di essere indipendente. E allora si riprende a cercare giacimenti, si aprono nuove miniere, tornano a galla quelle vecchie abbandonate o trasformate in musei.
Ne esistono in tutta Europa, Italia compresa, e alcune potrebbero riprendere a produrre grazie a tecnologie di estrazione molto più avanzate di quelle che si usavano nel secolo scorso. Anzi, sta già accadendo. Basta guardare al caso della nuova miniera sotterranea di rame, zinco, piombo e argento con raffineria polimetallurgica a Cobre Las Cruces, nella regione di Siviglia. Entrerà in funzione nel giro di quattro anni, sorgerà a fianco di quella a cielo aperto segnata in passato da incidenti e proteste, e verrà alimentata da fonti rinnovabili e con riciclo completo dell’acqua necessaria all’estrazione e alla lavorazione. O almeno queste sono le intenzioni. È di proprietà della First Quantum Minerals. Come vedremo fra poco, non è l’unica azienda canadese che sta giocando un ruolo di rilievo.
“Non si può pensare di continuare a consumare tecnologia, puntare al trasporto elettrico, alla produzione di energia rinnovabile con eolico e fotovoltaico, senza spostare un solo sasso in Europa per trovare i materiali necessari“, prosegue Franceschini. “Sarebbe miope dal punto di vista strategico e sarebbe eticamente discutibile, perché significherebbe che quel sasso è stato spostato altrove e con standard ben più bassi dei nostri, sfruttando la manodopera, usando tecnologie vetuste, con un impatto ambientale molto maggiore. Intendiamoci: non si tratta di aprire in Europa miniere ogni cento metri, ma di riprendere l’estrazione con regole precise, tecnologia avanzata e conseguenze limitate, e, allo stesso tempo, potenziare il riciclo dei rifiuti elettronici, recuperare gli scarti di vecchi siti estrattivi che oggi sappiamo come lavorare, trovare nuovi materiali che possano in futuro sostituire quelli che dobbiamo importare, mettere a punto sistemi di sfruttamento dei giacimenti sempre meno invasivi”.
In realtà in Europa le attività minerarie non hanno mai smesso di funzionare, benché negli ultimi decenni si siano ridotte. Siamo però scoperti sui metalli. E così Svezia, Finlandia e Norvegia hanno iniziato a sfruttare, o stanno per cominciare a farlo, vecchi e nuovi giacimenti di nichel, litio e soprattutto terre rare. In Spagna come in Polonia storicamente si estrae rame che servirà sempre di più. Ma c’è anche il litio in Portogallo, mentre dalla Grecia potranno arrivare quantità sempre maggiori di bauxite, essenziale per produrre alluminio e usato fra l’altro nella struttura dei pannelli fotovoltaici.
Nuove e vecchie miniere d’Italia
Dell’Italia si dice sia povera di risorse. Ma all’Eit sottolineano che in realtà è da trent’anni che non si fanno indagini e quindi non abbiamo bene idea di cosa ci sia sottoterra. Il caso del litio a Campagnano vicino Roma è solo uno dei tanti che potrebbero emergere.
“Abbiamo avuto una grande storia mineraria finita poi verso agli anni Cinquanta”, commenta Anna Vedda, a capo del dipartimento scienze dei materiali dell’Università di Milano Bicocca. “Bisogna cominciare ad estrarre anche se la cosa non piace perché è innegabile che estrazione e processo delle materie hanno un impatto sull’ambiente. Noi dovremmo farlo cercando di tutelarlo il più possibile. Concordo sul fatto che i nuovi obiettivi europei sono ambiziosi, ma è giusto che lo siano”.
In attesa di nuove esplorazioni, se si guarda alla storia mineraria italiana sappiamo che dall’Alta Val Sesia è arrivato oro, rame, ferro e manganese. E ancora: da Bivongi (Reggio Calabria) molibdeno, galena, argento, piombo; da Caporciano (Pistoia), Montecastelli (Pisa) e Predoi (Bolzano) il rame; da Carona (Brescia), Agrigento, Caltanissetta, Catania, Enna, Palermo, lo zolfo; da Cogne (Aosta) e dall’Isola d’Elba (Livorno) il ferro; da Gambatesa (Genova) il manganese; da Gares (Belluno) rame e ferro; da Guia (Verbano – Cusio – Ossola) l’oro; da Monte Calisio (Trento) l’argento; da Monte Re (Udine) e da Raibl (Udine) piombo e zinco.
Peccato solo che non abbiamo più le competenze necessarie, o meglio un numero sufficiente di esperti. Di corsi di ingegneria mineraria non ce ne sono molti e sono pochi i geologi specializzati in questo campo. Non è un problema solo nostro, l’Europa in generale trova il personale minerario in India e Sud America. Al punto che qualche tempo fa in Italia è stata firmata una lettera aperta da accademici coinvolti nel settore per segnalare che è il momento di rimediare. Fra i firmatari c’è Andrea Dini, primo ricercatore al Cnr nel campo delle geoscienze.
“È stato un grido di dolore per muovere le acque, ma non significa che in Italia non ci siano le competenze, solo che siamo troppo pochi”, spiega quando lo raggiungiamo al telefono. “Abbiamo vecchi giacimenti che sono a volte troppo piccoli, quello di ferro all’Isola d’Elba tanto per citarne uno, e altri che sono stati molto sfruttati come lo zinco e il piombo in Sardegna, che per altro non ha certo il valore del cobalto. La Sardegna però è una regione molto interessante dove il cobalto potrebbe esserci, come c’è di sicuro in Piemonte, e potremmo anche trovare le terre rare. Si aggiunge al litio fra Lazio e Campania e lo zinco nel bergamasco. Finché non si iniziano a condurre esplorazioni serie è difficile avere un quadro preciso della situazione. Ci stavamo muovendo in tal senso nel passato recente, poi con il cambio di governo c’è stato un rallentamento. Ma si dovrà ripartire per forza a patto di coinvolgere le giuste aziende private, perché sono loro alla fine che si mettono in cerca dei giacimenti. Straniere, ovviamente, di Paesi compatibili ed amici, meglio se europei. Noi, infatti, non abbiamo più compagnie capaci di gestire da sole un progetto minerario importante”.
I dilemmi della Serbia
In Serbia, che è alle porte della dell’Unione Europea, nel frattempo hanno trovato un giacimento d’oro con concentrazioni mai viste che comincerà ad essere sfruttato fra un anno. E ne hanno trovato anche uno enorme di litio, il più grande al mondo. Per avere un’idea dell’importanza di questo metallo, fondamentale per la produzione di batterie, basterà dire che si prevede che la domanda crescerà di 18 volte entro il 2030 e di 60 volte entro il 2050. Il giacimento, situato nel distretto di Macva, al confine con la Bosnia, era stato dato in concessione alla anglo-australiana Rio Tinto, con una partecipazione della cinese Chinalco. L’inizio della costruzione della miniera era previsto per quest’anno.
L’operazione, chiamata progetto Jadar e sostenuta da Gran Bretagna, Unione Europea, Australia e Stati Uniti, è stata bloccata dal governo serbo a gennaio del 2022. Come hanno notato alcuni in quei giorni la Russia, che ha da sempre un legame stretto con la Serbia, stava già ammassando truppe sul confine ucraino che poi avrebbe varcato un mese dopo.
Belgrado, oltre ai 2,4 miliardi di dollari della concessione, avrebbe beneficiato di circa 2100 posti di lavoro nel settore delle costruzioni e di un’iniezione di 200 milioni di euro all’anno nella catena di approvvigionamento nazionale, stando alla Rio Tinto. Gli ambientalisti si sono però opposti, mentre un’altra parte dell’opinione pubblica si è detta contraria per timore di dare troppo potere ad un gigante minerario internazionale. Sullo sfondo vanno anche considerate le elezioni di aprile 2022.
Tra giugno 2022 e gennaio 2023, la società ha pagato circa 1,2 milioni di euro per 5,78 ettari di terreno attraverso sette contratti separati con i residenti nel sito minerario proposto. Il gruppo ambientalista “Mars sa Drine”, ovvero “Via dalla Drina” (il fiume che separa Serbia e Bosnia), secondo quanto riporta Balkan Insight e Business & Human Rights Centre, crede che lo stop alla miniera sia una farsa e che bisogna affidarsi ad un referendum nazionale. “Rio Tinto compra le persone con offerte in denaro, e ora, in una mossa di marketing geniale, agiscono come un’organizzazione umanitaria che investe nell’artigianato locale”, ha dichiarato Jovana Amidzic, portavoce del gruppo, riferendosi agli investimenti fatti nelle comunità locali dalla compagnia mineraria anglo australiana.
L’unica strada per riprendere il progetto Jadar è diventata quella di un referendum, senza il quale ogni attività sarebbe vista come un’imposizione. Per mesi si è discusso se dovesse essere locale, dove la maggior parte delle persone è favorevole alla miniera, o nazionale. In quest’ultimo caso invece il risultato potrebbe essere di segno opposto.
Quel che c’è in fondo al mare
Mentre in Europa si riaprono le miniere sulla terraferma, altrove si punta al fondo dell’Oceano destando non poche preoccupazioni. È una partita che ci riguarda indirettamente, nei nostri mari pare ci sia poco o nulla e in ogni caso non ha senso mettersi a fare indagini quando non sappiamo nemmeno quel che si nasconde a terra, ma potremmo avere un peso nella fase regolamentare. Fase che vive in questi giorni un passaggio complicato che ha al centro una piccola repubblica del Pacifico e una compagnia candese.
La premessa: fra i 400 a circa 5000 metri di profondità, in aree segnate da attività vulcanica, si possono trovare il cobalto, terre rare e altri materiali. Sono nei substrati di roccia dura in aree di montagne sottomarine, creste, altipiani e dove le correnti impediscono la deposizione di sedimenti. Occupano vaste aree in cima a queste altezze topografiche all’interno della zona economica esclusiva dei paesi così come all’esterno.
La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, o Unclos (acronimo di United Nations Convention on the Law of the Sea), nel 1982 stabilì che i fondali sono patrimonio dell’umanità e che in quanto tali vanno protetti e se sfruttati deve essere a vantaggio di tutti. Per regolare quest’ultima parte è nata nel 1994 l’Autorità internazionale dei fondali marini, Isa (International Seabed Authority), proprio per gestire le risorse minerarie nei mari internazionali. Da allora ha concesso 31 licenze per esplorazioni, 30 sono in attività, condotte da più di 20 Paesi.
Per cominciare un’esplorazione bisogna essere Stati membri dell’Isa. Nello scorso decennio le hanno avviate fra gli altri Cina, Russia, Giappone, India, Francia, Germania, Sud Corea e Brasile nell’Oceano Atlantico ma soprattutto nel Pacifico, in particolare nella zona di frattura di Clipperton fra Messico e Hawaii, accaparrandosi le concessioni migliori. A fianco ai Paesi maggiori, ci sono poi nazioni molto più piccole usate come base da aziende private. Nel 2011 l’Isa ha iniziato a studiare le regole per poter passare dalla fase di indagine a quella di sfruttamento. Norme che, per quanto attese, l’Isa non ha mai pubblicato. A luglio però sarà costretta a farlo.
Il caso della piccola Nauru
Una regola interna dell’Isa prevede che una volta presentato un piano di sfruttamento debba arrivare un pronunciamento entro due anni. In sua assenza il piano può essere avviato. Ed è quello che ha fatto nel luglio del 2021 la Nori, ovvero la Nauru Ocean Resources Inc, di proprietà della canadese The Metals Company, che ha aperto un ufficio a Nauru. È la più piccola repubblica indipendente al mondo: 21,4 chilometri quadrati per 11mila abitanti. Fu parte dell’Impero coloniale tedesco dal 1888 al 1919, è stata poi amministrata dall’Australia fino al 1968, quando divenne indipendente. Ancora oggi il legame è stretto a causa della crisi economica che va avanti da anni. L’Australia per altro ha qui costruito un campo, segnalato più volte da Amnesty International, dove detiene gli immigrati clandestini.
L’isola ha vissuto in passato sui giacimenti di fosfati, oggi esauriti, utilizzati nell’agricoltura intensiva. A metà degli anni Settanta il reddito pro-capite degli abitanti di Nauru era di 50mila dollari, solo ai cittadini dell’Arabia Saudita andava meglio. Ma con la chiusura delle miniere la ricchezza è scomparsa e prima di allora era stato già compromesso irrimediabilmente l’ecosistema naturale. Oggi dell’epoca d’oro restano le enormi strutture in ferro abbandonate sulla costa per il carico dei mercantili.
Nauru deve importare quasi tutto, con un reddito pro capite sceso a 10mila dollari l’anno. Un Paese che non sembra essere in grado di poter dire no a degli investimenti. Gerard Barron, l’amministratore delegato di Metals Company, un australiano sulla cinquantina che gira in maglietta e giubbotto di pelle, stando a Wired avrebbe donato 200 mila dollari destinati a programmi di sviluppo. Questo perché attraverso Nauru, che è membro dell’Isa, Barron ha ottenuto la licenza di esplorazione di ampie zone di fondali marini molto promettenti con la sussidiaria Nori.
“I canadesi hanno una tradizione mineraria molto importante”, spiega Marzia Rovere che per il Cnr lavora con l’Isa nella rappresentanza del nostro Paese, dato che anche l’Italia ne è parte dal 1995. “Alcune loro aziende operano sotto l’ombrello di altre nazioni perché il Canada non ha ancora una posizione ufficiale sullo sfruttamento dei fondali e possono così operare con maggiore libertà. Ma c’è chi si oppone e per questo le regole non sono mai state pubblicate: Francia e Germania, ma anche del Cile e di altri. Lo fanno per sensibilità ambientale, non abbiamo molte idee su come l’estrazione potrebbe impattare sull’ecosistema marino, o per interesse. Chi ha le proprie miniere sulla terraferma non è detto che veda di buon occhio che si cominci ad estrarre dall’oceano. L’Unclos, da cui l’Isa deriva, prevede che l’estrazione in mare non debba minacciare quella di terra. È una norma di salvaguardia per quei Paesi in via di sviluppo che vivono di esportazioni minerarie. L’Italia sta tentando di trovare una via di mezzo che garantisca l’estrazione con il minor danno possibile all’ambiente”.
Ammette però che sappiamo ancora poco di quei fondali. Parliamo di ambienti a quattro o cinquemila metri di profondità. A differenza di quanto accade sulla terraferma, non conosciamo l’impatto reale dell’attività mineraria né se alla fine converrà visti costi elevati. Di sicuro si tratta di giacimenti non rinnovabili. Una volta esauriti non si riformeranno.
Cosa nasconde davvero il Pacifico
La Nauru Ocean Resources Inc., Nori, da giugno 2023 potrebbe iniziare a raccogliere, più che estrarre, materiali pregiati dai fondali nell’area della frattura di Clipperton. Punta ai noduli polimetallici, detti anche noduli di manganese. Sono grosse pepite che contengono quattro metalli essenziali: cobalto, nichel, rame e manganese, in un unico minerale. Formati nel corso di milioni di anni, con la caduta dei metalli nell’acqua anche grazie alle colate laviche, giacciono slegati dal fondale marino.
“A differenza dei minerali terrestri, non contengono livelli tossici di elementi pesanti”, si legge sul sito della compagnia canadese. “La produzione di metalli dai noduli ha il potenziale per noi di produrre quasi il 100% della massa del nodulo. Si arriva a un foglio di flusso metallurgico che non lascia praticamente scarto di produzione”. Secondo la The Metals Company, dalla Nori potrebbe arrivare il 22% delle risorse stimate in quella zona di indagine. L’area assegnata viene giudicata come il più grande deposito di nichel ancora non sfruttato al mondo e ci si aspetta di trovare quantità equivalenti di rame, manganese e tracce di cobalto.
Indonesia e a seguire Filippine, Nuova Caledonia e Russia cominciano a preoccuparsi essendo in quest’ordine i maggiori produttori di nichel, che nel 77% dei casi è usato per fabbricare acciaio inox, seguiti da Australia, Canada e Cina. Ma la situazione della Metals Company non è delle più solide. Una parte degli investitori si sono ritirati. L’azienda gli ha fatto causa e loro hanno intrapreso un’azione legale sostenendo di esser stati ingannati. Il titolo in borsa, che aveva quasi raggiunto i 10 dollari, ora veleggia attorno ai 75 centesimi. A corto di fondi, sbandiera comunque i risultati fin qui raggiunti grazie a grandi trattori sottomarini telecomandati attraverso un lungo cavo ombelicale, fabbricati dalla svizzera Allseas. Vengono calati a migliaia di metri di profondità per dragare il fondale, verosimilmente con poco discernimento fra quel che si raccoglie di animato o di inanimato, e poi riportati in superficie sfruttando sistemi simili a quelli dei sommergibili. In un test il trattore di Nori ha arato per 80 chilometri il fondale raccogliendo 4500 tonnellate di noduli, al ritmo di 86,5 tonnellate all’ora. Questo significa che l’intera operazione è durata poco più di due giorni.
Non sono imprese semplici e gli incidenti non mancano. Il cavo di un mezzo sottomarino della Global Sea Mineral Resources (Gsr), sussidiaria del belga Deme Group, si è spezzato e la compagnia ha dovuto impiegare un robot per riparare il danno e riportare a galla il trattore. L’intero sistema di raccolta, che a breve verrà aggiornato con i mezzi subacquei di terza generazione, i Patania III, è già costato alla Gsr 100 milioni di dollari.
Se Metals Company naviga in acque agitate, altre aziende sembrano avere meno problemi. Fra le altre Uk Seabed Resources, passata di recente dalle mani dell’americana Lockheed Martin a quelle della norvegese Loke Marine Minerals, il già citato Deme Group di Anversa, la Deep Ocean Resources Development Co. giapponese. E poi le compagnie cinesi e indiane.
Le proteste
Il Deep-Sea Mining Science Statement, firmato da 754 scienziati ed esperti di politiche marine provenienti da oltre 44 Paesi, ha chiesto una moratoria delle ricerche minerarie. Anche Greenpeace ha lanciato una petizione, firmata da poco meno di mezzo milione di persone: “Stop deep sea mining before it starts”, ovvero “fermiamo l’attività mineraria nel mare profondo prima che cominci”.
“L’oceano profondo è uno degli ecosistemi più grandi, fragili e importanti del mondo“, sostiene l’organizzazione non governativa. “Alcuni Paesi hanno già espresso le loro preoccupazioni per l’estrazione mineraria in alto mare. Altri hanno chiesto una moratoria o un divieto. Dobbiamo passare da queste parole ai fatti. Abbiamo bisogno che i governi fermino il lancio di questa nuova distruttiva industria estrattiva e mettano il mare profondo off-limits per l’estrazione mineraria per sempre”.
A fine marzo il primo ministro norvegese, il laburista Jonas Gahr Støre, durante un’intervista al quotidiano Bergens Tidende ha affermato che l’estrazione mineraria in alto mare può essere condotta in un modo tale da non danneggiare la biodiversità. Il governo norvegese sta infatti considerando di avviare ricerche ed eventualmente attività minerarie su una superficie di 329mila chilometri quadrati nelle sue acque territoriali, un’area grande quasi quanto la Germania. Benché, di nuovo, del 99% di questa zona non si sappia nulla.
La cosa ha fatto infuriare la Deep Sea Conservation Coalition, alla quale aderiscono organizzazioni come il Wwf e Greenpeace, dando un’idea dello scontro in atto prima ancora che venga avviata la prima operazione di sfruttamento dei giacimenti.
“L’oceano potrebbe essere la prossima frontiera per l’estrazione mineraria”, ha scritto sul New York Times a metà marzo Diva Amon, biologa marina e direttrice di SpeSeas, un gruppo che si batte per la conservazione degli oceani con sede a Trinidad e Tobago. “Un’organizzazione oscura formata ai sensi del trattato sul diritto del mare delle Nazioni Unite, sta finalizzando i regolamenti per le attività minerarie in oltre il 40% della superficie del pianeta. L’approvazione di queste norme potrebbe arrivare a luglio. Dopo di che, si rischia l’inizio di una corsa per estrarre in mare. E una volta cominciata, ci saranno poche speranze di tenerla a freno“. L’organizzazione oscura sarebbe la Nori, che in realtà di oscuro ha ben poco.
Ambiguo, o almeno è stato giudicato così da Bloomberg, il rapporto fra il segretario generale dell’Isa, il britannico Michael Lodge e lo stesso e Barron. Lodge, che non sembra avere la dota della diplomazia, in un’intervista rilasciata sempre al New York Times ha spiegato il suo punto di vista sulle proteste ambientaliste: “Chiunque a Brooklyn può affermare di non voler recare alcun danno agli oceani, ma è certo che poi ci tiene molto ad avere una Tesla”.
Chi guadagnerà dallo sfruttamento delle miniere marine
Ospite della Fondazione Leonardo e del suo presidente Luciano Violante, a maggio del 2023, Michael Lodge ha spiegato che senza l’Isa lo sfruttamento dei fondali sarebbe cominciato da decenni e su base unilaterale. Possibilità sventata grazie al quadro normativo nelle Nazioni Unite che ha permesso fino ad ora solo l’esplorazione. “Esplorare significa dar vita ad uno sfruttamento più consapevole avendo una maggiore conoscenza delle condizioni ambientali dei fondali e delle caratteristiche delle risorse minerarie. Il monitoraggio continuerà anche nella fase successiva, quella della raccolta dei noduli“. Come abbiamo visto però, secondo gli esperti le nostre conoscenze sono ancora molto scarse.
Lodge insite sul fatto che le miniere in fondo all’oceano porteranno dei benefici condivisi con tutti gli Stati membri. “Non solo i più potenti, ma anche i più fragili e piccoli, come la Repubblica di Nauru. Sappiamo molto di più sui fondali grazie alla fase di esplorazione, che è costata più di 1,5 miliardi di dollari, e ora siamo vicini a passare a quella successiva. Grazie alla tecnologia l’impatto sarà minimo e i dati raccolti saranno pubblici, così come tutte le informazioni riguardo la mappatura che si sta compiendo dei fondali”.
Il negoziato è in atto e saranno i dettagli a fare la differenza. Sul tavolo dei membri del consiglio dell’Isa, 36 in tutto fra i quali l’Italia sui 168 Paesi che aderiscono all’organizzazione, c’è il nodo fondamentale su come dividere i guadagni. Per ammissione dello stesso Lodge su questo tema si stanno incontrando le difficoltà maggiori. Sottolinea però un aspetto che in effetti e tutt’altro che secondario: è la prima volta che si tenta di gestire delle risorse in maniera corale da tutte le nazioni. Fra le proposte c’è quella di istituire un fondo mondiale, in sostituzione della distribuzione diretta, per sostenere la scienza marina. Ma a non tutti piace.
“Il meccanismo di distribuzione è in fase di definizione. Non c’è ancora consenso generale su un’unica formula”, conferma Marzia Rovere. “L’Italia ha una posizione di equilibrio simile a quella di tutti i Paesi occidentali: il meccanismo deve essere equo, ad valorem, semplice da gestire, graduale e deve consentire un guadagno iniziale per le aziende che hanno le licenze perché all’inizio avranno molte spese e profitti incerti. In seguito, la tassazione dovrà aumentare“. Sempre ammesso che ci siano poi dei profitti.
Costi e benefici
Viene da chiedersi se queste nuove miniere, di mare come di terra, avranno costi sostenibili economicamente. Recuperare metalli a migliaia di metri di profondità, con tutto quello che ne consegue in termini di ricerca, attrezzatura, trasporto, non è come scavare una galleria in Africa. Dall’altro, sulla terraferma europea, abbiamo standard più elevati nella sicurezza, stipendi almeno dignitosi rispetto a quanto ricevono i minatori altrove, una maggiore attenzione all’ambiente, un uso di tecnologia avanzata. E di nuovo ciò significa costi più elevati con il rischio di non essere competitivi sul mercato.
“Non possiamo più ragionare come al tempo delle delocalizzazioni”, risponde Andrea Dini. “Il problema non sta nel guadagnare di più o di meno, nell’avere il prezzo più basso sul mercato. Si tratta invece di costruire la possibilità di scegliere in Europa in fatto di materiali strategici, evitando i possibili ricatti degli altri. È una questione di geopolitica, di etica e di visione a lungo termine. Bisogna cambiare mentalità. E pazienza se qualche manager o qualche compagnia guadagnerà un po’ di meno”. Insomma, accontentarsi di profitti magari più bassi in cambio di un futuro garantito dall’indipendenza. Mineraria, in questo caso.
L’impatto del mining secondo ChatGpt
Abbiamo chiesto anche a ChatGpt quale siano le idee più ricorrenti rispetto all’impatto dello sfruttamento dei giacimenti in mare. Ecco le risposte:
L’estrazione mineraria sui fondali marini presenta diverse problematiche ambientali, sociali ed economiche. Tra queste si possono citare:
Distruzione degli habitat marini: l’estrazione mineraria dei fondali marini richiede la rimozione di grandi quantità di sedimenti e rocce, che possono distruggere gli habitat marini e causare danni irreversibili agli ecosistemi locali.
Inquinamento: l’estrazione mineraria può causare l’inquinamento dei fondali marini attraverso la dispersione di sostanze chimiche e metalli pesanti utilizzati durante il processo di estrazione. Questi inquinanti possono avere un impatto negativo sulla salute degli organismi marini e degli esseri umani che si nutrono di pesce.
Impatto sul clima: l’estrazione mineraria dei fondali marini richiede l’utilizzo di grandi quantità di energia, che può contribuire all’emissione di gas serra e all’aumento della temperatura globale.
Rischio di incidenti: l’estrazione mineraria sui fondali marini può comportare il rischio di incidenti, come perdite di petrolio o esplosioni, che possono avere un impatto negativo sulla vita marina e sull’economia locale.
Impatto sulle comunità locali: l’estrazione mineraria dei fondali marini può avere un impatto negativo sulle comunità locali, comprese quelle indigene, che dipendono dal mare per la loro vita e il loro sostentamento.
Fonti:
International Seabed Authority, Environmental Management of Deep Sea Mining.
Greenpeace, Deep Sea Mining: An Introduction to Underwater Mining and its Environmental Impact.
The Pew Charitable Trusts, Deep Sea Mining: An Invisible Land Grab.