Un costume da donna, uno da uomo, una borsa. Fino a qualche settimana fa erano bottiglie e sacchetti di plastica galleggianti che rimbalzavano tra il mare e la spiaggia. O impigliate nelle reti da pesca. Si chiama Ogyre ed è il primo modello italiano di ?shing for litter, ovvero i ri?uti marini vengono pescati grazie a un network di pescatori in Italia, Brasile e Indonesia. Vengono inseriti nei circuiti di rigenerazione e trasformati in materia prima per indumenti e accessori. “Con due chili di plastica creiamo un costume da bagno, con un chilo una borsa – spiega Andrea Faldella, bolognese, velista che con Antonio Augeri, genovese, imprenditore e surfista, ha fondato Ogyre – una piattaforma che vuole contribuire a ripulire il mare dai rifiuti grazie ai pescatori e alle aziende che li sostengono”.
Dodici dipendenti, 55 flotte e 80 pescatori attivi da una parte all’altra dell’oceano. I pescatori vengono pagati a parte per svolgere questa seconda attività. In Indonesia e in Brasile possono anche decidere di uscire solo per questo tipo di raccolta che viene retribuito direttamente da Ogyre. Un sistema che funziona. Basta guardare il sito per vedere quanto il contatore che registra i chili recuperati giri velocemente: siamo a 222.678 mila. Se pensiamo che un chilo di plastica sono 100 bottigliette da 50 ml, si intuisce lo stato in cui sono ridotti sia il nostro mare che l’oceano. Un modello di economia circolare, che chiude il cerchio con la realizzazione di costumi da bagno prodotti con un filato creato dalla plastica, il cui ricavato sostiene il finanziamento dei pescherecci. Due i modelli: Oshorts da uomo, deriva dal poliestere ricavato dal filato in plastica rigenerata; Okini è, invece, il costume da donna, realizzato in poliammide riciclato.
L’idea di Faldella e Augeri è nata dalla passione per il mare. Guardando i rifiuti intrappolati nelle reti. “In Italia le flotte di Cesenatico, Santa Margherita Ligure e Marina di Ravenna quando escono in mare durante la normale attività di pesca mettono i rifiuti pescati accidentalmente nei nostri contenitori. Una volta sulla banchina li consegnano ai collaboratori Ogyre che si occupano del riuso oppure dello smaltimento”, spiega ancora Andrea. Sì, perché ad Ogyre quello di monitorare l’attività è un punto di forza. Soprattutto per quanto riguarda la collaborazione con le aziende che finanziano il lavoro dei pescatori di riportare a riva i rifiuti. Un sistema diventato possibile in Italia dopo la legge Salvamare, che ha tolto il divieto di trasportare a terra i rifiuti per smaltirli.
Tra le 43 aziende che hanno aderito al progetto di Ogyre, ci sono Panerai e Unipol. “Ci hanno contattato perché considerano che la nostra campagna rispecchi i loro valori, creando un legame per la salvaguardia dell’oceano”, spiega uno dei fondatori. E perché tutto sia trasparente, chi finanzia la campagna per smaltire questo mare di rifiuti può direttamente seguire l’attività di chi raccoglie la “propria” plastica dall’acqua. Unipol ad esempio ne ha raccolti 11mila chili, uno per ogni dipendente. “Alle aziende partner viene assegnata una flotta e una pagina personale a cui possono accedere direttamente. Sono così in grado di sapere in tempo reale quando la barca è uscita per loro, quanti chili di plastica sono stati recuperati e da quale pescatore. Ci sono i loro nomi e i conteggi completi, giorno per giorno. Ma da oggi chiunque può acquistare chili di plastica marina recuperata”. I due founder di Ogyre infatti ora coinvolgono anche singole persone a ripulire il mare dal rifiuto più diffuso. E per non farlo rimanere solo un gesto etico, stanno pensando di poter trasformare anche la plastica raccolta da una singola persona in un oggetto. “Cosa può fare ognuno di noi con un chilo di plastica? E proprio a questo che stiamo pensando con i nostri partner”. E siccome in questa azienda tutto ha un significato, Ogyre prende il nome dalle Ocean Gyres, le correnti oceaniche che con il loro movimento formano le cosiddette isole di plastica nel Pacifico. C’è plastica ovunque negli oceani, in superficie e sui fondali. Luoghi dove noi non abbiamo mai messo piede. Ma la nostra spazzatura sì.