“Noi artisti abbiamo il dovere di prendere posizione nella lotta contro la devastazione ecologica globale: cambiamento climatico è una definizione ormai insufficiente, stiamo assistendo alla sesta estinzione di massa. E non siamo i soli a dover dire e fare qualcosa: gli squilibri naturali in atto toccano tutti. Un giorno, nessuno potrà dire che non sapevamo quello a cui andavamo incontro”.
Ola Maciejewska è un’artista e performer polacca. Vive in Francia da diversi anni: ha esposto al Centre Pompidou di Parigi, al Guggenheim Museum di Bilbao, al Reina Sofia Museum. Si interroga, spesso, sull’impatto dell’uomo del pianeta. E lo farà anche a Roma, il 7 e 8 settembre, nella cornice della diciannovesima edizione dello “Short Theatre”, il festival internazionale dedicato alla creazione contemporanea e alle performing arts.
Lei porterà il suo ultimo lavoro, “The second body”, critica non troppo velata all’azione distruttiva dell’uomo. Il titolo si ispira all’illuminante saggio omonimo di Daisy Hildyard, un viaggio nelle grandi contraddizioni dell’antropocentrismo. “Sul palco ci saranno il corpo di una danzatrice e un blocco di ghiaccio, calco della sua scapola”, anticipa l’artista.
Proprio così: l’uno, un organismo complesso fatto di muscoli, ossa e vene, per l’80% liquido; l’altro, fatto di acqua di rubinetto congelata, inevitabile il rimando ideale ai ghiacciai che vanno sciogliendosi, effetto (inesorabile?) del climate change.
“Con questo spettacolo voglio celebrare la comunione sensibile con ciò che ci circonda e ci pervade, l’acqua”, aggiunge Ola. La danzatrice duetta così per circa un’ora con il blocco di ghiaccio: un approccio ecologista, quello dell’artista, che si traduce nell’interazione attiva della materia con l’uomo, che ne è a sua volta direttamente plasmato. Con buona pace dell’antropocentrismo: “La prospettiva inscenata dalla performer critica tende a criticare, in modo sottile, il diritto dell’uomo a disporre della natura come crede, a suo specifico vantaggio”, osserva Piersandra Di Matteo, che cura la direzione artistica dell’intero festival.
Tutto è nato con Chernobyl
L’interesse della performer per i temi dell’ecologia e dell’ambiente accompagna Maciejewska sin dalla tenera età. “Nel 1986 è esploso uno dei reattori della centrale nucleare di Chernobyl: io avevo solo due anni, ma è stata una catastrofe che ha avuto una influenza tangibile sulla mia vita e su quella di chi mi circondava. Credo sia stato un momento chiave della mia esistenza, anche se era molto piccola. Sono imprevedibili gli esiti dei disastri ecologici, che si accumulano e stratificano da generazioni e generazioni. Oggi credo che il pensiero ecologico non sia più una scelta, ma una necessità collettiva. Ho la sensazione che le forme di questa consapevolezza siano troppi spesso compromesse da scetticismi e revisionismi. Ma mi piace pensare che una crescente coscienza dell’urgenza del problema possa aprire la strada a un cambio di prospettiva per il futuro, purché ci si smarchi da un certo antropocentrismo che continua a disturbarmi: nessuno ha le mani pulite, la distruzione ecologica investe i programmi politici sia delle sinistre che delle destre”.
La lezione della Senna inquinata
Non è persuasa dall’efficacia delle azioni dimostrative di protesta delle nuove generazioni, che non di rado hanno trovato espressione anche nei musei: “Lanciare una zuppa di pomodoro sui capolavori dell’arte occidentale non è un metodo che promuoverei per sensibilizzare le persone sul disastro ecologico. – spiega – Trovo più interessante approfondire quali, tra le istituzioni museali, stiano tagliando i fondi e interrompendo i rapporti con le compagnie di combustibili fossili. Sono molte. Ecco, preferisco vedere azioni concrete sul piano politico. Nei giorni delle Olimpiadi, ha guardato con interesse la vicenda della Senna.
Accendere i riflettori su un tema però aiuta
“I Giochi hanno messo in primo piano, su scala globale, lo stato dell’inquinamento del fiume, e mi pare una buona notizia perché ha innescato un processo di approfondimento del problema. Per esempio, io vivo Priziac, in Bretagna: qui viviamo lottando costantemente con le alghe verdi, conseguenze dell’agricoltura industriale intensiva e dell’uso di sostanze come nitrati o pesticidi che fluiscono nei fiumi, corsi d’acqua e, infine, nel mare. Accendere i riflettori su un grande problema aiuta, con un effetto domino, le comunità locali ad aprire gli occhi. È un po’ come il caso di Cecil, il leone ucciso dal dentista statunitense Walther Palmer in Zambia: il fatto che l’evento sia stato amplificato a livello internazionale consente che venga recepito diversamente anche a livello locale”.
“Tra materialità ed effimero”
Da artista, Ola è animata da un desiderio di ricerca che, spiega, “investe principalmente la scrittura del corpo. Ho studiato danza sin da bambina, e ho deciso di concentrarmi sulla coreografia perché volevo comporre danze mie, partiture da inventare. Mi interessano le frizioni tra materialità ed effimero, il movimento e le sue condizioni di apparizione e sparizione. Guardo con attenzione anche alla storia della danza per proporne letture critiche, come nel caso delle danze inventate da Loie Fuller che coinvolgono lo spettatore in una riflessione sulla metamorfosi, il mondo naturale e la natura ibrida dell’incarnazione”.La sua partecipazione allo “Short Theatre” di Roma (il festival dura dal 5 al 15 settembre, info www.shorttheatre.org) la riporta in Italia, paese con il quale – dice – “ho una connessione profonda. Anche per questo non vedo l’ora di presentarvi per la prima volta il mio lavoro. Per riflettere, tutti insieme, sull’impronta dell’uomo sul pianeta”.