Paolo Paci, scrittore e giornalista, ama le vette in ogni loro sfumatura e nel suo ultimo libro, La montagna delle illusioni (edizioni Piemme), racconta un paesaggio aspro e difficile con la sensibilità e la cura di chi concepisce le alture un posto indispensabile e dal fascino senza tempo. I paesaggi nei ricordi d’infanzia. “Non sono le Alpi, ma le Apuane, il gruppo appenninico più aspro e verticale. Andavamo in vacanza in Versilia e spesso ci spingevamo fino al rifugio Forte dei Marmi, sotto il torrione del Procinto che negli anni Sessanta stava diventando una famosa palestra di roccia. Posso dire che il mio primo calcare l’ho toccato lì, e sapeva di mare e macchia mediterranea. Poi sono venute le Grigne, le Dolomiti del Sella, le rocce di Campo dei Fiori… per un adolescente le pareti, la dimensione del vuoto, possono trasformarsi in fretta in una passione travolgente”.
La montagna è un po’ il filo conduttore della sua vita?
“Sono stato a lungo giornalista di viaggi, ho diretto testate di gastronomia e di lifestyle e solo ora, dopo più di quarant’anni di professione, posso dedicarmi interamente alla scrittura di montagna. Ma mi rendo conto che l’alpinismo ha formato ogni piccola parte della mia vita, ha accompagnato le mie relazioni sentimentali, l’educazione dei miei figli, ogni minuto del mio tempo libero e professionale. La montagna modella il carattere di chi la vive pienamente, insegna la pazienza e la resilienza, il rispetto per gli altri e per la natura: non solo gli animali, ma anche le piante, i licheni, le pietre. E questo è qualcosa che si può trasmettere”.
Lei è un grande conoscitore della montagna. Cosa ama di più?
“Un tempo avrei detto le grandi scalate sul granito, le cascate di ghiaccio, le creste affilate. Oggi sono più propenso a vedere la montagna non più nel solo gesto sportivo ma nei suoi aspetti esistenziali. Il silenzio, la solitudine, la contemplazione. Un grande paesaggio (ma anche un bosco, una prateria d’alta quota) induce chi lo sa vedere in uno stato contemplativo. Si svuota la mente, si placa l’ansia. Un grande alpinista del passato, Reinhardt Karl, lo definiva tempo per respirare.
Come nasce l’idea del suo ultimo libro?
“L’idea nasce da un’esperienza che, come me, tanti altri cittadini hanno vissuto. I condomini vuoti delle stazioni sciistiche. Tecnicamente si chiamano letti freddi, quelli che vengono occupati solo per poche settimane l’anno. Ecco, quando si va nel proprio appartamentino di montagna in bassa stagione, essere immersi in questa atmosfera da ghost town (impianti chiusi, negozi vuoti, corridoi e deserti) è un’esperienza straniante. Io volevo ricrearla attraverso gli occhi di chi vive in quegli strani condomini tutto l’anno: i custodi. E per questo il protagonista del romanzo è proprio il figlio di un custode, nato e vissuto per vent’anni nella piccola metropoli d’alta quota. Antonio Soressi, così si chiama, scappa dal suo paese, diventa un artista di fama internazionale e torna nella valle solo alla morte del padre. Per raccoglierne l’eredità e fare i conti con il passato”.
Nel suo romanzo racconta le Alpi moderne, lacerate tra la bellezza naturale e i disastri di un’economia di rapina, accelerati dalla crisi climatica…
“Il romanzo ripercorre settant’anni di storia italiana visti da una remota valle alpina. Ci sono dentro le emigrazioni e le guerre coloniali, la nascita delle prime stazioni invernali e la guerra partigiana, il saccheggio del territorio e la crisi dello sci di massa, dal 1930 al 2003, che fu l’anno del ‘grande caldo’, in cui il global warming divenne tangibile per tutti. Non parliamo quindi solo di contraddizioni della montagna, ma di contraddizioni di un intero Paese: le Alpi, che sono l’ambiente più fragile, le rende solo più visibili e drammatiche. L’economia turistica, che ha salvato la montagna da una secolare povertà, sta lasciando dietro di sé anche tante devastazioni, e la neve, motore principale di questa economia, si sta rivelando una miniera in esaurimento. Pare quasi una malattia terminale, con i ghiacciai che si sciolgono, le stazioni sciistiche che falliscono, la miopia degli imprenditori che insistono nel voler costruire a quote sempre più alte. Ma sono sicuro che siamo ancora in tempo per guarire le nostre montagne, a patto di abbracciare un modello di sviluppo completamente diverso”.
Cosa fa nel suo piccolo per proteggere l’ambiente?
“Io scrivo, come tanti altri. E siccome invece sono pochi a leggere, a volte mi sento impotente. Forse il messaggio più incisivo possiamo lanciarlo non con i nostri articoli o libri, ma con il nostro comportamento individuale. E la parola chiave è: rispetto. Personalmente, cerco di riciclare, di restaurare, di riutilizzare, insomma di innescare il più possibile il meccanismo virtuoso dell’economia circolare. Le culture antiche della montagna erano esempi perfetti di economie circolari, che il consumismo e l’illusione di una facile ricchezza hanno distrutto. Altro concetto importante è: non lasciare tracce. La montagna, così come tutti gli ambienti naturali, ne hanno abbastanza della devastante presenza dell’uomo. Basta con le funivie, con le ferrate e le vie a spit che devastano le pareti, con l’edilizia di rapina, le strade, i parcheggi, i resort”.
Cosa le fa più paura del cambiamento climatico?
“Non si torna indietro. I ghiacciai saranno del tutto estinti per la fine di questo secolo e la crisi idrica sarà la vera emergenza del secolo seguente. Ciò non vuol dire che non dobbiamo fare ogni sforzo per eliminare le cause e mitigare gli effetti del riscaldamento globale. Ma sarà anche importante imparare nuovi modelli di vita: risparmiare, consumare di meno, viaggiare di meno e coltivare più giardini, piantare alberi, accontentarsi del poco che avremo. L’uomo è un animale resiliente, potrà superare anche la nuova crisi globale. Ma solo se cambia prospettiva”.
Come immagina il futuro?
“Fare ancora qualche bella scalata, curare le mie piante, vedere i miei figli che curano il mondo. Nel breve periodo, un libro sulla scoperta delle Dolomiti, che uscirà poco prima delle Olimpiadi di Cortina. Per scriverlo sto studiando tanto e scopro la vita affascinante dei pionieri dell’alpinismo sette-ottocentesco: Déodat de Dolomieu, John Ball, Paul Grohmann, le prime guide di Cortina. Tutta gente che aveva grandi visioni, che sapeva camminare e soffrire. Dovremmo reimparare da loro”.