Quando si è sparsa la voce che si tornava a coltivare l’erica, hanno donato i loro terreni al progetto. Senza pensarci due volte, un gruppo di piccoli proprietari ha regalato in tutto circa cinquanta ettari nell’area naturale del Pratomagno in Toscana. Solo per far rivivere i paesaggi dell’infanzia, quando questa pianta, che cresce spontanea nelle brughiere dell’Italia centrale, era coltivata dalle famiglie contadine per far quadrare i conti.
Era una rendita garantita rispetto alla precarietà dei raccolti, perché dai rami dell’erica si ricavano le setole per le scope. Fibre resistenti anche alla polvere più renitente, ideali per ramazzare strade e cortili. Negli anni Settanta del secolo scorso, solo nella città di Milano, se ne acquistavano circa 150mila all’anno. Poi la concorrenza dei materiali sintetici e l’abbandono delle campagne hanno cancellato questa lavorazione vegetale. Con il tempo il bosco ha preso il posto dei cespugli di erica, che peraltro non è una specie protetta.
Ora questo relitto dell’agricoltura di sussistenza, il cui nome è Erica scoparia, è stato reintrodotto sull’Appennino toscano, in quello che era uno dei principali distretti di produzione delle scope tra le provincie di Arezzo e Firenze. Con il progetto europeo LIFE Granatha si è intervenuti su quasi duecento ettari. L’erica è stata in parte favorita con pratiche forestali per recuperare gli habitat di alcuni uccelli migratori e in parte coltivata per produrre le setole per l’igiene stradale.
“All’inizio la superficie prevista per gli interventi era di 170 ettari, di cui 80 destinati alla produzione – spiega Marcello Miozzo della cooperativa D.R.E.A.M. Italia e coordinatore del progetto – ma molti piccoli proprietari terrieri nelle aree contigue al progetto hanno voluto donarci altri cinquanta ettari”. Per vendere tutte queste scope, all’interno di LIFE Granatha è stata costituita una cooperativa per la lavorazione di questa pianta. Una parte significativa di scope è già stata acquistata da società locali di pulizia stradale.
Da un ettaro di ericeti si ottengono circa 2.500 scope, una ogni quattro metri quadrati. La raccolta dei rami per le setole si ripete una volta ogni quattro-cinque anni e le fascine, in passato, venivano lasciate seccare direttamente sul terreno. Le foglie dell’erica, a forma di ago, erano poi riciclate come innesco per i forni.
L’erica ha un ciclo di vita di circa trent’anni e, se non ci sono le condizioni ambientali adatte, svanisce lasciando spazio al prugnolo selvatico, un arbusto utilizzato per le siepi che di solito precede l’avanzata delle latifoglie e del bosco. Per ringiovanire questi ericeti in decadenza il progetto, a cui ha collaborato anche l’Università di Torino, ha sperimentato tecniche diverse, dal fuoco prescritto al contenimento delle invasive fino al pascolamento con le capre, predatori naturali dei germogli delle specie vegetali concorrenti all’erica.
Le piantine di erica destinate alle scope sono state coltivate nel Centro Nazionale Carabinieri Biodiversità di Pieve Santo Stefano, un ex vivaio forestale dove oggi sono conservati oltre ventimila chili di sementi della flora spontanea d’Italia.
Del ritorno dell’erica hanno beneficiato sia gli artigiani locali sia la biodiversità. Questi arbusteti montani, che rischiavano di estinguersi del tutto con l’affermazione del bosco, sono da tempo gli habitat riproduttivi di alcune specie protette di uccelli come la magnanina comune (Sylvia undata), di cui questa zona dell’Appennino toscano ospita la più importante popolazione nidificante dell’Italia peninsulare, e dell’albanella minore (Circus pygargus). L’evoluzione di questa grande area di intervento naturalistico sarà monitorata nel tempo anche con l’ausilio di immagini del satellite Sentinel-2 e di campionamenti ornitologici sul campo.