Barche di legno, canoe, palme, prati, fiori, villette, villoni. E quel fiume color caffè latte, che si insinua e si attorciglia, per chilometri e chilometri, nel delta del Rio Paranà de las Palmas. Eccola Tigre, sobborgo di Buenos Aires, sino alla scorsa settimana meta delle gite domenicali della capitale argentina. Poi, d’improvviso, la ribalta mondiale: perché è qui che mercoledì è morto Diego Armando Maradona.

 

Plaza de Mayo a Buenos Aires è a 35 chilometri, la stazione ferroviaria di Retiro a un’ora di viaggio, anche se nulla batte il Tren de la Costa che dal quartiere di Olivos porta a Tigre lungo i binari affacciati sul Rio de la Plata. Ma durante un viaggio in Argentina non ci si finisce per caso, a Tigre. Le guide turistiche sono piuttosto inclementi verso questa zona acquitrinosa tanto amata dalle zanzare, senza monumenti o ristoranti di richiamo per il visitatore straniero, e dove pure il Museo del Mate, con quella collezione da duemila oggetti dedicati alla bevanda nazionale, ha ormai chiuso.  Eppure, a Buenos Aires, sono tutti affezionati a questa città da 376mila abitanti, così a misura d’uomo se paragonata alla megalopoli che la ingloba e ne conta 11 milioni. 

 

Tigre, Puerto de frutos, foto Massimiliano Salvo 

«E’ il primo spazio naturale dopo il cemento della città» spiega il professor Sergio Barbieri, docente di scienze politiche dell’Universidad del Salvador a Buenos Aires, autore insieme al giornalista Eduardo Bolaños di quello che potrebbe essere l’ultimo libro su Maradona pubblicato con il calciatore in vita: “Diego, Boca y la magica tarde del 22 de febrero de 1981”, stampato il 19 novembre. Anche loro, come d’altronde tutti nella capitale, sono entusiasti di questa valvola di sfogo a una metropoli che non offre molto in quanto a gite fuori porta.  «Tigre permette ai porteños di sfuggire un po’ alla follia di Buenos Aires e di trovarsi in un attimo in un luogo più tranquillo, con una natura esuberante, a volte persino fastidiosa, e la presenza rilassante dello scorrere dell’acqua».

Tigre Art Museum, foto Massimilano Salvo 

Ed è proprio la ricerca della calma e del silenzio che negli ultimi anni sta attirando abitanti a Tigre da altre zone della capitale. Diego Armando Maradona abitava nel barrio Sant’Andres in località Benavides, a una decina di chilometri dal Puertos di Frutos che per il turista è la destinazione principale. Il mercato è un tripudio di frutta e verdura, vestiti, cesti di vimini, mobili e chincaglieria varia. I ristoranti non mancano, chioschi e venditori di bibite neppure. Ma l’attrazione è il rio Lujàn e l’assortimento di battelli, motoscafi, barche a remi e canoe con cui visitare le isole e i canali che attraversano il delta come fosse un labirinto.

 

La sua scoperta come luogo di svago risale a meno di duecento anni fa, quando i primi abitanti facoltosi di Buenos Aires cominciarono a trascorrere il tempo libero nelle grandi residenze di campagna che oggi ne illuminano il patrimonio architettonico. Furono istituiti anche circoli di canottaggio e costruiti magnifici edifici come il Tigre Club, di inizio ‘900, che oggi ospita il Tigre Art Museum e affascina chiunque lo ammiri dal fiume. Ma la colonizzazione per motivi di pesca e agricoltura è ben più antica e collegata alla fondazione della città di Buenos Aires, nel 1580. All’epoca il delta era pressoché disabitato dagli uomini, ma apprezzato dai giaguari. E così i conquistatori, esperti di armi ma non certo di zoologia, chiamarono l’intera area con il nome del felino più simile che venne loro in mente: la tigre.