Sui principali quotidiani nazionali è comparsa una pagina pubblicitaria, che in realtà era un grido di dolore: “Perché l’Italia paga l’energia il doppio degli altri Paesi Ue?”. A porsi, retoricamente, la domanda è il gruppo Arvedi, attivo nei settori metallurgico, siderurgico, informatico. Tutti ambiti energivori, per i quali il costo della bolletta rischia di essere un fattore penalizzante nei confronti di competitor di altri Paesi. Non a caso l’appello pubblicato oggi si chiude con un esplicito riferimento a una crisi che potrebbe avere risvolti sull’occupazione: “Abbiamo il dovere e la responsabilità di difendere il posto di lavoro dei nostri lavoratori”. Oggi il prezzo unico nazionale dell’energia elettrica in Italia è di 0,193 euro al chilowattora. Nell’ultima settimana in Spagna è oscillato tra 0,085 e 0,133 euro. Ieri in Gran Bretagna era di 0,098 euro, in Germania di 0,113, in Francia di 0,069. Per quanto le oscillazioni giornaliere influiscano in modo imprevedibile, è comunque la conferma che in Italia la bolletta elettrica è più salata che altrove.

Se ne conoscono le ragioni: importiamo più della metà dell’elettricità che consumiamo o dei combustibili necessari a generarla. E poi c’è la formazione del prezzo, quello che secondo la campagna di Arvedi rappresenta il nodo cruciale: “Il prezzo dell’energia elettrica viene calcolato e addebitato con riferimento ai costi della centrale a gas meno performante”. In Italia, come in altri Paesi europei, la formazione del prezzo dell’elettricità avviene attraverso un meccanismo noto come mercato marginale. Semplificando, una volta definito il fabbisogno giornaliero nazionale di elettricità, ogni fornitore (da rinnovabili come da fossili) propone il suo quantitativo e il suo prezzo. In genere i prezzi più bassi sono quelli dell’elettricità prodotta con fotovoltaico ed eolico, i più alti quelli dell’elettricità generata importando e bruciando gas naturale. Il meccanismo del mercato marginale prevede però che a determinare il pezzo sia la quota più costosa dell’elettricità necessaria a completare il fabbisogno giornaliero, quella da gas appunto. Perché al momento l’Italia non può fare a meno del gas per raggiungere i circa 55 gigawatt di potenza elettrica consumata nelle ore di punta da imprese e famiglie.

Un sistema non semplice da smontare, anche se ci si sta lavorando. Una delle ipotesi è vendere le fonti rinnovabili attraverso contratti a lungo termine con prezzi fissi, mentre l’elettricità prodotta da gas o carbone potrebbe continuare a essere regolata dal mercato marginalista. L’Arera, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, è molto cauta nell’affrontare questa riforma e vorrebbe un intervento coordinato a livello europeo. Il timore è che disaccoppiando i prezzi di gas e rinnovabili si finiscano per penalizzare entrambi i comparti. I produttori di rinnovabili che ora incassano (e auspicabilmente reinvestono) extraprofitti considerevoli, visto che la loro energia è pagata quanto il costoso gas. I gestori di centrali a gas perché a quel punto risulterebbero i più cari, da soli, sul mercato. In condizioni normali l’asta giornaliera premierebbe sempre fotovoltaico e solare, ma cosa accadrebbe in periodi di assenza di sole e di vento? Le centrali a gas sarebbero in grado di subentrare? E a che prezzo?

“In realtà non c’è nemmeno bisogno di riforme normative”, spiega Giovanni Battista Zorzoli, esperto di questioni energetiche e membro del comitato tecnico scientifico di Italia Solare. “In Spagna, Portogallo e Germania, il disaccoppiamento tra prezzo delle rinnovabili e prezzo del gas è già una realtà. Come ci sono riusciti? Spingendo eolico e fotovoltaico fino a coprire più del 60% del fabbisogno elettrico nazionale, mentre in Italia siamo ancora al di sotto del 50%”. Con una elettricità rinnovabile a dominare il mercato cresce, nell’arco della giornata, il numero di ore in cui si può fare a meno del gas e questo influisce sulla formazione del prezzo. “E infatti in Spagna e Portogallo c’è stato una riduzione del 40% del prezzo del chilowattora, in Germania del 20%, ma perché i tedeschi usano ancora molto carbone, che è più economico del gas, e quindi il margine di guadagno è stato minore”.