La plastica biodegradabile è una grande conquista, ma sebbene come applicazione industriale risalga agli anni ’60 ancora oggi si staglia nell’immaginario popolare come qualcosa di risolutivo e magico. “In realtà si intende che il materiale può essere degradato ad opera di microorganismi o batteri e quindi che si produca una mineralizzazione. In pratica le molecole complesse iniziali diventano semplici e si ottiene alla fine del ciclo CO2 e acqua. Questo è quello che vorremmo per tutti i composti che finiscono nell’ambiente, perché l’impatto diventa quasi nullo”, spiega Monica Passananti, ricercatrice e professoressa associata presso il Dipartimento di chimica dell’Università di Torino.

Il problema è che molti pensano che una busta, un piatto o una forchetta in plastica biodegradabile non facciano danni se abbandonati all’aria aperta. Non è così. Prima di tutto a prescindere dai materiali c’è un problema di ordine meccanico: che si tratti di un pezzo intero o frammenti la fauna rischia il soffocamento. Poi c’è il tema del degradamento intermedio: a seconda dei polimeri si potrebbe manifestare tossicità in caso di ingerimento.

Riciclo

La sostenibilità dei cosmetici inizia dal packaging

dalla nostra inviata Fiammetta Cupellaro

Dopodiché è bene chiarire che un oggetto in plastica può essere solo biodegradabile, oppure contemporaneamente biodegradabile e compostabile. Nel primo caso si ha una decomposizione, magari anche in pochi giorni o settimane, grazie all’azione di microrganismi e batteri abbinata ad agenti atmosferici naturali; il risultato è che i microrganismi si nutrono del materiale di cui sono costituite queste plastiche e producono come scarti principalmente anidride carbonica e acqua. Nel secondo caso il processo può essere ancora più veloce e si ottiene del vero e proprio compost, ovvero una sostanza ricca di proprietà nutritive che può agire da concime. A volte il compost può essere “prodotto” direttamente in casa, più comunemente c’è bisogno di un processo industriale. In ogni caso questo tipo di plastica si getta nell’umido.

Marco Vesari

, presidente del consorzio Biorepack – il primo sistema europeo di responsabilità estesa del produttore (Epr) dedicato agli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile – cita come esempio le bioplastiche certificate EN13432 ( biodegradabil e compostabili) “ideate e sviluppate per rispondere alle esigenze del mondo agroalimentare e come strumento capace di favorire la raccolta dei rifiuti organici“. In pratica quelle che da ormai un decennio si trovano nei supermercati, nei mercati rionali, nei reparti dell’ortofrutta e che sono caratterizzate dalla presenza di un logo specifico. 

La biodegradabilità è davvero efficiente solo grazie alla differenziata

La raccolta differenziata rimane una delle chiavi di tutto poiché la corretta separazione dei materiali garantisce non solo una maggiore purezza di ciascuna raccolta ma anche il massimo dell’efficienza. “Dal punto di vista del trattamento successivo i percorsi di plastiche convenzionali e bioplastiche compostabili sono molto diversi. Le prime sono destinate a impianti di riciclo meccanico o chimico. Le altre sono invece destinate al riciclo organico, insieme al resto dei rifiuti umidi”, ricorda Vesari. “Il ruolo di Biorepack si inserisce proprio in quest’ultimo ambito: all’interno del sistema CONAI, il nostro Consorzio si occupa di erogare ai Comuni e ai soggetti convenzionati le risorse economiche necessarie a coprire i costi di raccolta, trasporto e riciclo delle bioplastiche compostabili. Tali risorse sono garantite dal contributo ambientale obbligatorio pagato dalle imprese della filiera delle bioplastiche consorziate con Biorepack”.

L’impegno della filiera è fondamentale perché come sottolinea la professoressa Passananti “ci vogliono delle condizioni specifiche per una biodegradabilità davvero efficiente: batteri, microrganismi, una temperatura superiore ai 50°, un alto livello di umidità, presenza di ossigeno o meno, ecc.. Condizioni controllate insomma, che in un ambiente normale non ci sono. Quindi senza il rispetto di questi parametri i tempi possono allungarsi“. La biodegradazione può avvenire in ambienti molto diversi e una plastica che risulta biodegradabile nel terreno può non esserlo in un altro ambiente. 

Sempre secondo la ricercatrice vi sono diversi studi che confermano che una delle plastiche biodegradabili più usate, a base di acido polilattico (PLA), in formato di bottiglia può durare in acqua di mare più di un anno senza degradarsi. “Quindi sicuramente rispetto a un polimero classico che vive anche cent’anni, la scala temporale è più bassa, ma la tempistica comunque rimane lunga”. L’arco temporale è importante anche perché vi sono plastiche biodegradabili che derivano da combustibili fossili, come il Polibutirrato (PBAT), e altre da materiali rinnovabili. “L’importante è quindi fare corretta informazione, bisogna rispettare il ciclo della raccolta differenziata. E quindi usare i contenitori per la plastica o per l’organico a seconda dei casi”. E in tal senso secondo Vesari i cittadini stanno rapidamente prendendo confidenza anche con le bioplastiche compostabili, nonostante siano materiali innovativi introdotti in tempi ben più recenti rispetto a molti altri imballaggi.

“Ovviamente c’è ancora molto da fare dal punto di vista comunicativo per aumentare tale consapevolezza. Ma i risultati nel trattamento della frazione organica dei rifiuti raggiunti da parte di alcuni territori dimostrano che il binomio bioplastiche compostabili-scarti umidi è la soluzione migliore. Ad esempio la città di Milano riesce ad avviare a riciclo l’87% dei rifiuti organici generato in ambito cittadino. Per fare un confronto: altri Stati, anche di lunga tradizione nella raccolta differenziata come Olanda e Germania, intercettano ancora oggi appena il 16% dello scarto di cucina”, conclude il presidente di Biorepack. 

Microplastiche e nanoplastiche ancora più pericolose?

Un altro tema oggi di studio da parte della ricercatrice è quello relativo alle micro (da 1 mm a 1 micron) e nano plastiche (sotto il micron) e come interagiscono con l’ambiente circostante. “Soprattutto le nanoplastiche, a seguito del degrado delle plastiche, arrivano a esporre superfici elevatissime. Una busta di plastica può arrivare a coprire circa dieci campi da tennis. Le molecole reagiscono prima alla superficie, se c’è più superficie aumenta la probabilità di un maggior numero di reazioni chimiche soprattutto con processi di ossidazione. Il problema è che le micro e nano plastiche assorbono facilmente altri inquinanti e li possono quindi trasportare in giro“, spiega la ricercatrice.


Gli studi sono ancora in corso ma il timore è che le nanoplastiche possano perturbare notevolmente gli equilibri degli ambienti. Insomma le piccole molecole generate dalle reazioni potrebbero alimentare batteri e microrganismi, già presenti, alterando le condizioni di equilibrio e generando effetti collaterali sconosciuti.