“Vale più l’arte o la vita?” domandano gli attivisti che lanciano minestra o purè sulle opere d’arte dei musei d’Europa. Una formula provocatoria, non senza limiti, ma che funziona nella sua immediatezza. Si può replicare in tanti modi, nella sfida globale contro il cambiamento climatico. Può essere una questione temporale: “vale più il presente o il futuro?”, o una questione geopolitica “Salvare il Nord globale ricco o i Paesi più vulnerabili?”. Può essere anche una questione di valori universali: “vale di più l’ambientalismo o la libertà?”.
Ecco, oggi chiedo questo: “vale più l’ambientalismo o la libertà?”. La domanda non è casuale.
Fra due settimane prenderà il via a Sharm el-Sheikh la Cop27, il più importante appuntamento di diplomazia climatica dell’anno. E più ci avviciniamo all’appuntamento, più ci rendiamo conto dell’errore commesso dall’Unfcc, l’organo delle Nazioni Unite che organizza le Cop, quando ha assegnato l’evento all’Egitto. Perché negli ultimi anni, dopo il fallimento della primavera araba, il Paese è tra i meno liberi di tutto il mondo, e non ha fatto nulla per migliorare la situazione nonostante l’importante appuntamento di novembre.
Naomi Klein, scrittrice canadese, in questi giorni ha trattato l’argomento sul Guardian, sintetizzando così il problema: “Si tratta di greenwashing applicato a uno Stato di polizia”. Greenwashing, ovvero la tecnica di mostrare verde ed ecosostenibile qualcosa, solitamente un prodotto, mentre si nasconde la vera natura, solitamente inquinante, di chi lo ha prodotto.
Scrive Klein: “L’Egitto di Al-Sisi ha messo su un grande spettacolo di panelli fotovoltaici e cannucce biodegradabili, ma in realtà il regime imprigiona gli attivisti e vieta la ricerca. Gli ambientalisti non dovrebbero stare al gioco”. In Egitto tra il 6 e il 19 novembre sono attesi migliaia di delegati, associazioni, persone illustri: si incontreranno in un mega resort preparato per l’evento. Porteranno avanti preziosi e irrinunciabili negoziati, ma lo faranno sotto una campana di vetro, che li isolerà dal Paese che li ospita.
In Egitto almeno 60.000 prigionieri politici sarebbero chiusi nelle carceri, molti dei quali senza nemmeno essere stati processati. Sotto il regime di Abdel al-Sisi, in carica dal 2014, il Paese “sta vivendo la più grave crisi di diritti umani della sua storia recente”, dichiara Human Right Watch. In carcere si trovano politici dell’opposizione, giornalisti, attivisti, difensori dei diritti LGBT+ e chiunque osi criticare apertamente il potere che in questi anni al-Sisi ha accumulato. Secondo HRW violenze e torture della polizia e dei militari rimangono impunite e sarebbero portate avanti in maniera sistematica e organizzata, come una “catena di montaggio”.
L’Egitto è da anni sull’infausto podio dei Paesi peggiori per la libertà di stampa. La società civile è scomparsa: le organizzazioni indipendenti e le opposizioni sono sotto sorveglianza, nella vita reale e in quella virtuale. La mano dello Stato non è mai stata così violenta: secondo Amnesty International, il Paese nordafricano è al terzo posto per numero di esecuzioni, dietro solo a Cina e Iran; e al secondo posto per esecuzioni di donne. Da gennaio 2014 fino al 2018 nella penisola del Sinai, dove si trova Sharm el-Sheikh, sono stati commessi crimini di guerra da parte dell’esercito, che ha soppresso la ribellione della popolazione locale con diversi massacri indiscriminati.
Tra i tanti prigionieri ce ne sono due che conosciamo meglio degli altri: il ricercatore egiziano-bolognese Patrick Zaki, in detenzione preventiva dal febbraio 2020 nonostante le tante pressioni internazionali; e Alaa Abd El-Fattah, quarantunenne informatico e attivista, uno dei padri della Primavera araba, in carcere dal 2011.
Alaa è una delle figure più conosciute della ribellione contro il regime egiziano, ed è anche la prova vivente della feroce repressione che subisce chi protesta o semplicemente la pensa diversamente. Ogni settimana invia una lettera alla famiglia: i suoi scritti sono diventati un libro, ma non sempre tutto ciò che firma riesce a superare le mura del carcere: proprio nelle ultime settimane aveva promesso una lettera dedicata al clima, che partiva dalle alluvioni che a settembre hanno sommerso un terzo del Pakistan e che probabilmente si concludeva con un ragionamento sulla Cop27. La lettera non è mai arrivata. Censurata.
Da anni le associazioni per i diritti umani chiedono all’Egitto di rilasciare Alaa, (#FreeAlaa è ormai un noto slogan) insieme ai tantissimi altri prigionieri politici. Negli ultimi giorni le richieste si sono fatte più rumorose. Giovedì il Parlamento europeo doveva votare una risoluzione sugli obiettivi dell’Ue alla Cop27: al documento è stato aggiunto un emendamento, votato a larga maggioranza, che chiede all’Egitto il rilascio dei prigionieri, la scarcerazione urgente di Alaa e maggiore libertà e trasparenza durante e dopo Cop27. Non solo: il Parlamento chiede alle Nazioni unite e all’Unfcc di sviluppare dei requisiti umanitari minimi per scegliere gli Stati che ospiteranno i prossimi eventi.
Si è aggiunta anche Greta Thunberg, che in un tweet ha invocato il rilascio dei prigionieri politici e ha ricondiviso la petizione che chiede l’apertura di uno spazio civico alla Cop di Sharm.
Ecco perché alla domanda “vale più l’ambiente o la libertà?” io risponderò sempre “la libertà”, ben consapevole che è una posizione lontana dalla realpolitik necessaria per trovare risultati concreti. Ma credo fortemente che il cambiamento climatico non sia un semplice fatto tecnico-scientifico: è anche politica, economia, società, idee, paure e sogni. Non esiste giustizia climatica senza democrazia, senza il riconoscimento delle differenze, delle diseguaglianze, delle voci di tutti. Le soluzioni vanno trovare insieme in un spazio civile e aperto, a costo di metterci il triplo del tempo. Anche se l’urgenza è massima, non ci sono scorciatoie illiberali. Altrimenti il futuro dell’umanità avrà risolto il problema delle emissioni o dell’inquinamento, ma non tutti gli altri, a partire dal più importante: il riconoscimento di ciascun individuo, di ogni società, di tutte le differenze che ci rendono una specie senziente. La nostra casa è in fiamme, ma ci dobbiamo premurare di salvare tutti.
Ho avuto la possibilità di andare a seguire la Cop. Sono un giornalista climatico, mi occupo di ambiente da anni; con articoli, newsletter, podcast, post sui social. Poteva essere l’occasione dell’anno: vedere da vicino come la diplomazia trova soluzioni a problemi complessi. Ci ho pensato molto, ma alla fine ho scelto di non andare in Egitto. Il perché è raccolto nelle parole che ho scritto qui sopra, ma ancora di più in quelle che leggo ogni giorno sul braccialetto che porto al polso: “Verità per Giulio Regeni”. La storia di Giulio non c’entra nulla con il clima, ma c’entra tutto con che mondo vogliamo costruire.
Noi che siamo suoi concittadini sappiamo meglio di tutti che Stato sia oggi l’Egitto. Gli italiani che andranno là per salvare il clima, devono portare con loro anche questo fardello.