Ancora 13 anni, poi il peso della plastica in circolazione supererà quello di tutti gli esseri umani. Nel 2035 quindi non guardare in faccia il problema sarà impossibile o quasi: al di là delle emissioni di gas serra, stiamo soffocando la Terra a forza di bottiglie e sacchetti che ricicliamo solo in minima parte. Il 28 febbraio a Nairobi, in Kenya, apre la Environment Assembly delle Nazioni Unite, definita dal Washington Post “il più ambizioso sforzo di diplomazia climatica dai tempi dell’accordo di Parigi del 2015”. Vedremo se sarà davvero così, anche perché uno degli obiettivi è proprio ridurre produzione e consumo di plastica. O almeno questa è la speranza perché la conferenza potrebbe anche concludersi con un nulla di fatto considerando che tanti remano in quella direzione.
“Se smettessimo di produrre plastica e iniziassimo a riciclare quella che abbiamo saremmo sulla buona strada per risolvere il problema. Il suo valore aumenterebbe e raccoglierla diventerebbe vantaggioso”. David Katz, canadese, 53 anni e una inossidabile fiducia nel genere umano, su questa idea ha fondato la Plastic Bank. A metà strada fra un’azienda e un’organizzazione non governativa, ha messo in piedi nelle Filippine, Indonesia, Brasile, Camerun ed Egitto un ecosistema nel quale in cambio degli scarti raccolti si forniscono servizi, da quelli sanitari al traffico dati, dando così un valore differente alla plastica. Risultato: due miliardi di bottiglie tolte dalla circolazione, ovvero 40 mila tonnellate. “Bisogna cambiare mentalità”, prosegue. “E non vale solo per la plastica. Attraverso incentivi per il riciclo e tasse sulla produzione di materiali vergini, l’idea di gettar via quel che si usa deve tramontare”.
In un mondo che non produce più plastica
Katz su un punto ha sicuramente ragione: il problema è il costo così basso della fabbricazione della plastica. Proviamo allora ad immaginare un mondo nel quale di colpo si smettesse di fabbricarla usando solo quella riciclata. Niente più contenitori per i medicinali, l’acqua, il dentifricio, lo shampoo. Al loro posto lattine, bottiglie di vetro o al massimo di metallo da riutilizzare all’infinito. E poi distributori più o meno automatici piazzati nei supermercati e nelle farmacie per la vendita di prodotti sfusi. Alcuni, come lo shampoo, avrebbero forma solida come avviene con le saponette. Altri, come il detersivo per i piatti, verrebbe commercializzato in pastiglie da sciogliere nell’acqua. Vietati del tutto i sacchetti, rimpiazzati con quelli di carta riciclata. Vietata anche la pellicola, frutta e verdura verrebbero protette da una patina commestibile erogata attraverso dei nebulizzatori.
La plastica a quel punto la troveremmo su eBay venduta al migliore offerente. Con alcune tipologie, il vinile degli Lp ad esempio, che diventerebbero particolarmente ricercate al di là del loro contenuto o funzione. A casa si farebbe estrema attenzione nel pulirla, separarla in base alla tipologia e poi portata al centro di raccolta per incassare e d’estate sulle spiagge nascerebbero gare per scovare quanto lasciato dai professionisti del settore.
Se domani smettessimo di produrre la plastica di colpo, questo sarebbero alcuni degli effetti collaterali più visibili. La scarsità, dall’oro ai Bitcoin, porta invariabilmente ad un aumento dei prezzi. Ed è quello che servirebbe alla plastica: nel 2020 ne abbiamo prodotta 367 milioni di tonnellate secondo la PlasticsEurope, l’associazione europea dei produttori di materie plastiche. Ed è andata bene perché nel 2019 avevamo fatto di peggio. Ormai nell’ambiente ne esistono fra le otto e i dieci miliardi di tonnellate, delle quali 100 milioni sarebbero in mare. Quanto basta per continuare riciclarla in eterno anche cessando o riducendo drasticamente la produzione.
“Idea difficile da mettere in pratica, ma è un esercizio d’immaginazione interessante”, commenta da Londra George Harding-Rolls, 29 anni, analista della fondazione Changing Markets. È un’organizzazione che opera fra le altre cose per far pressione sui vari governi perché vengano adottate leggi che aiutino ad avere un mercato più sostenibile. Harding-Rolls in particolare ha dieci anni di attività alle spalle, parte dei quali trascorsi in Cina.
“La strada migliore sarebbe quella di avere una strategia completamente differente di raccolta e riciclo dei rifiuti, per riusare quanto più materiale possibile. Ma questo significherebbe rivedere buona parte delle norme attuali che regolano la conservazione, distribuzione e vendita del cibo. Insomma, per fermare la produzione della plastica dovremmo avere prima una infrastruttura per la gestione degli scarti molto molto più efficiente di quella di oggi. E attualmente solo Germania e pochissimi altri Paesi sono sulla buona strada”.
Il miraggio del riciclo
Per l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra), l’Italia ricicla soltanto il 30% della plastica raccolta. A livello globale siamo appena al 14, 18 per cento secondo un rapporto di quattro anni fa dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Il resto? Un quarto circa finisce negli inceneritori, mentre la maggior parte viene depositato nelle discariche o semplicemente abbandonato nell’ambiente. E questo avviene perché riciclare la plastica è difficile, costoso e per certe tipologie impossibile. Soprattutto non conviene dal punto di vista economico.
“Nel 1950 il mondo produceva solo due milioni di tonnellate all’anno. Da allora, la produzione annuale è aumentata di quasi 200 volte, raggiungendo il record di 381 milioni di tonnellate nel 2015. È grosso modo l’equivalente della massa di due terzi della popolazione mondiale”, scrive Hannah Ritchie, ricercatrice Our World In Data, nella relazione Plastic Pollution redatta in collaborazione con l’Università di Oxford. “Prima del 1980, il riciclo e l’incenerimento della plastica erano trascurabili. Dal 1980 i tassi sono aumentati in media di circa lo 0,7% all’anno. Se estrapoliamo la tendenza storica proiettandola al 2050, il riciclo potrebbe arrivare 44%. Ma si tratta solo di una stima”, prosegue la ricercatrice inglese.
La famiglia che (quasi) non produce rifiuti
C’è però chi ha deciso di provare da subito a limitarne l’uso, dimostrando che è una strada percorribile già oggi. Lo sta facendo in Francia la Famille Zero Dechet, ovvero la Famiglia a (quasi) zero rifiuti guidata da Jérémy Pichon che ormai sforna oltre ai consigli, libri e giochi da tavolo sull’economia circolare. E lo fa anche Marianna Mea, biologa marina, 43 anni, nata e cresciuta a Roma, trasferitasi a Pozzuoli dove vive con il marito e i due figli conducendo una vita che produce pochissimi rifiuti. Il tutto raccontato per filo e per segno nel blog “A simple family”.
Vivere senza spazzatura: una giornata zero waste
“Non si può vivere senza plastica. È necessaria. Basti pensare ai dispositivi medici o quelli tecnologici”, spiega la stessa Marianna. “Ma nella vita di tutti i giorni si può fare molto. Ci vuole però un periodo di assestamento per rinunciare la plastica, insomma deve essere un percorso graduale fatto in base allo stile di vita, sapendo che si può rinunciare ad alcune cose all’inizio e magari non ad altri. C’è già molto ormai: i pannolini lavabili sono simili a quelli usa e getta ad esempio, fra i prodotti della cosmesi ora ce ne sono molti solidi e c’è perfino il dentifricio in pastiglie. E si può fare la spesa sfusa di verdure, frutta, legumi“.
Quanto tempo in più richiede vivere riducendo l’uso della plastica? In realtà si tratta di capire dove sono le alternative attorno a noi, secondo Marianna Mea. Una volta individuato quale negozio vende quel che stiamo cercando le differenze fra il prima e il dopo sarebbe relativo. “Semplicemente invece di andare in un certo supermercato si va in un altro”, prosegue la biologa romana. “E alcune cose si acquistano in grandi quantità una o due volte all’anno. Ma certo, all’inizio si tratta di capire dove e quando. Non si arriverà mai a zero, la stessa plastica riciclata ha una parte nuova, ma si può ridurre davvero molto. Certo, non è una strada per tutti anche se lo è per molti. Il cibo sfuso e biologico o i capi in lana senza fibre artificiali costano di più rispetto alla media e se si fa fatica ad arrivare a fine mese combattere la plastica finisce inevitabilmente in fondo alla lista delle priorità”.
Il sondaggio: “Sei pronto a rinunciare alla plastica?”
In realtà la volontà di farlo in Italia è più diffusa di quel che si potrebbe credere. Abbiamo chiesto a Toluna, azienda di sondaggi online, di indagare quale sia l’attitudine nei confronti della plastica attraverso un campione rappresentativo di oltre mille persone. Fra le dieci domande, avevamo ad esempio chiesto se si era disposti a comprare uno smartphone fatto di materiali riciclati anche pagandolo un po’ di più a parità di caratteristiche. Il 63% ha risposto affermativamente, così come si è detto disponibile a percorrere qualche chilometro in più per acquistare prodotto sfusi.
“Siamo rimasti colpiti dalla sensibilità su questo tema”, commenta Silvia Usberti, capo ricercatrice di Toluna. Laurea in economia a Parma, sua città natale, ha oltre venti anni di esperienza alle spalle negli istituti di analisi del mercato. “Più sono giovani più la sensibilità è alta. Sorprende quel dato sullo smartphone ed è significativo anche quello sulla volontà di percorrere dei chilometri in più per trovare prodotti sfusi benché poi tutti si aspettino prezzi più bassi. Certo, una parte delle risposte non sempre è attinente alla realtà, basti pensare alle percentuali bulgare sulla raccolta differenziata, ma dimostra comunque che è un tema sentito”.
Qualche svarione è stato registrato sulla percentuale di plastica che verrebbe riciclata in Italia e nel mondo. In entrambi i casi un terzo circa degli intervistati ha risposto correttamente, gli altri nella maggior parte dei casi sovrastima la nostra capacità di raccogliere e riusare la plastica.
Tante, troppe tipologie di plastica
Esistono migliaia di varietà di plastica, ognuna con diverse sostanze chimiche di base, derivati e additivi, per offrire il materiale più adatto ai differenti usi. A grandi linee acrilico, cloruro di polivinile (pvc), polipropilene, policarbonato, polietilene e altri fanno parte della categoria delle termoplastiche, le più usate. Possono passare attraverso vari cicli di fusione e solidificazione senza degradarsi in maniera significativa e quindi è relativamente facile riciclarla. Poi ci sono le plastiche termoindurenti che restano in uno stato solido permanente dopo la polimerizzazione. Se riscaldate non si fondono, ma si decompongono senza la possibilità di poterle manipolare una volta raffreddate.
In pratica non è possibile riciclarle. Appartengono a questa seconda categoria la resina epossidica, il poliestere, il poliuretano, il silicone, la gomma vulcanizzata. Le tipologie più usate sono, in ordine: il polipropilene e il polietilene, entrambe riciclabili, seguite dal poliestere che non lo è. Alle loro spalle c’è il pvc, il pet e via via le altre tipologie. Se guardiamo ai dati di un anno come il 2015, sono state prodotte di queste prime sei categorie 314 milioni di tonnellate, delle quali 59 non erano riciclabili, ovvero il poliestere.
I soliti sospetti
Se fosse una nazione la produzione della plastica nel suo complesso si piazzerebbe per emissioni di CO2 alle spalle di Cina, Stati Uniti, India e Russia. Fra le industrie che producono più scarti plastici, troviamo al primo posto quella degli imballaggi e dell’inscatolamento. Il settore tessile, al secondo posto stando ad Our World In Data, al confronto ne genera un terzo. Segue quella dei prodotti di consumo, i trasporti, le costruzioni, l’elettronica. Quest’ultima sta al mondo degli imballaggi con un rapporto di uno a dieci in fatto di scarti plastici.
In termini di produzione pro-capite di rifiuti, in testa alla classifica ci sono gli Stati Uniti con 105 chili a testa annui. Il Regno unito è a poca distanza con 98 chili, seguito da Corea del Sud, Germania, Tailandia, Malesia, Argentina, Russia e Italia, con 55 chili a testa. Al decimo posto il Brasile con 51 chili.
Il primato della Cina
Nel 2020 la Cina ha fabbricato il 32 per cento della plastica mondiale. Il Nafta, ovvero Stati Uniti, Canada e Messico, è la seconda regione con il 19 per cento. Essendo la principale economia manifatturiera ed esportatore di beni al mondo, non sorprende che la Cina sia anche il più grande fabbricatore di plastica. La produzione mensile cinese varia tra le sei e le otto milioni di tonnellate. L’intera America Latina arriva a 14,7 milioni di tonnellate ma in un anno. Nel 2019 il valore delle esportazioni cinesi in fatto di plastica ammontava a 48,3 miliardi di dollari, su un totale di 234.337 miliardi stando ai dati 2021 della Banca Mondiale. Se quindi ci fermassimo alla sola plastica, che però è la base di tanti altri processi industriali, i soldi derivanti dalla sua vendita per la Cina sono relativamente pochi. E’ una produzione che di per sé ha un peso relativo sull’economia. In teoria l’industria del riciclo potrebbe superarla se la raccolta avesse un ritorno economico adeguato in base alla riduzione o allo stop di quella vergine.
“Bisogna guardare all’intero quadro della situazione”, prosegue George Harding-Rolls. “La plastica è una fonte di guadagno sempre più importante per le compagnie petrolifere. È in questo settore che vedono il proprio futuro. Le loro proiezioni parlano di un raddoppio dei profitti entro il 2030. Per allora il 95% della domanda di petrolio verrà dalla petrolchimica e il 36% sarà destinato alla plastica”. Nell’era dell’energia rinnovabile le compagnie petrolifere hanno quindi già trovato la loro scialuppa di salvataggio. Anche perché si sono alleati con multinazionali dai nomi noti e dai profitti stellari.
I grandi inquinatori
Coca-Cola Company, Pepsi e Unilever fra le grandi multinazionali sarebbero quelle che inquinano di più con i loro prodotti. Seguono Nestlé, Procter & Gamble, Mondelez, Philip Morris, Danone, Mars, Colgate-Palmolive. A sostenerlo il quarto rapporto Branded del movimento Break Free From Plastic al quale aderiscono oltre duemila organizzazioni.
È un’iniziativa annuale che prevede la raccolta, il conteggio e la documentazione dei marchi su un campione che per il 2021 è stato di 330mila scarti di plastica trovati in 45 Paesi. L’accusa esplicita è che queste aziende affermerebbero di affrontare la questione climatica e in particolare il problema della plastica, ma continuerebbero in realtà a investire in soluzioni alternative di facciata proseguendo la collaborazione con le compagnie petrolifere.
“La plastica monouso ha effetti devastanti non solo sulla nostra Terra, ma anche per le comunità in prima linea in tutto il mondo”, si legge in uno dei rapporti della Break Free From Plastic rilanciato da Greenpeace. “I raccoglitori di rifiuti e i membri della comunità nel Sud del mondo stanno assistendo alla rapida escalation di imballaggi in plastica monouso di bassa qualità immessi aggressivamente sul mercato dalle principali multinazionali”.
Abbiamo chiesto una replica alla Procter&Gamble, scelta fra le altre perché in passato aveva promosso alcune sperimentazioni per nuovi sistemi di scelta e raccolta della plastica. Ma la risposta non è ancora arrivata malgrado siano passati diversi giorni. Ovviamente se e quando dovesse arrivare la aggiungeremo.
I danni dell’economia lineare
“In effetti anche noi facciamo tutti i giorni lo sforzo di immaginare un mondo nel quale non si produce più la plastica”, racconta Ambrogio Miserocchi da Bruxelles. Originario di Milano, 29 anni, laurea in ingegneria ambientale, che alla Ellen MacArthur Foundation si occupa di seguire la parte normativa in tema di economia circolare. “L’economia lineare, nella quale si adopera una risorsa per creare qualcosa che poi viene usato e gettato via, non è più sostenibile. Dobbiamo passare ad una vera economia circolare nella quale la plastica, come qualsiasi altro materiale, non perde mai valore anche quando è stata usata. Riciclare non è abbastanza e comunque è un processo dove ci sono delle perdite ed è sempre richiesta una certa quantità di materia nuova. Inoltre, non abbiamo le infrastrutture adatte per trattare tali quantità di plastica. I prodotti vanno ripensati fin dall’inizio in modo che non diventino mai uno scarto”.
È una tesi molto simile a quella del fondatore di Plastic Bank: ripensare radicalmente l’attuale sistema della distribuzione e del consumo fin dalle fondamenta. “Dobbiamo incentivare quel che non sta ancora accadendo e che ci serve e disincentivare quel che è accaduto fino ad ora”, conclude lo stesso Katz. “Non vedo altre alternative se vogliamo rendere più semplice il voltare le spalle alla plastica vergine e sviluppare nuove tecnologie per riusare tutta quella che è già in circolazione”.