Se oggi possiamo comprendere cosa significa perdere i ghiacci polari per la sopravvivenza del nostro paneta e a quali conseguenze andremmo incontro è anche grazie a DortheDahl-Jensen e Johannes (Hans) Oerlemans. I due studiosi, (danese la prima, olandese il secondo) sono stati appena insigniti dal Premio Balzan 2022, riconoscimento che spazia dalla ricerca sui nuovi materiali alla filosofia morale, dall’etnomusicologia fino appunto alla scienza delle calotte polari.
I quattro premi verranno consegnati in occasione del Forum dei Premiati giovedì 24 novembre e la cerimonia si terrà il giorno dopo all’Accademia dei Lincei, in presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A ciascuno degli studiosi andrà un contributo di 750 mila franchi svizzeri (770 mila euro), con l’impegno che la metà di questa cifra vada a finanziare, su indicazione del premiato, progetti di ricerca svolti da giovani ricercatori. Una missione non facile, come sanno bene Jensen e Oerlemans, premiati entrambi “per i fondamentali e pionieristici contributi congiunti e complementari alla dinamica della glaciazione e delle calotte polari e per la portata che hanno avuto sulla comprensione del cambiamento climatico e dei suoi meccanismi”. Un’eredità che oggi diventa fondamentale per contrastare la crisi climatica. Come ci ha spiegato Johannes “Hans” Oerlemans, professore di Meteorologia presso la Facoltà di Fisica e Astronomia dell’Università di Utrecht e membro della Royal Netherlands Academy of Arts and Sciences.
Cosa vuol dire ricevere il Premio Balzan, considerando che le previsioni da voi prospettate più di trent’anni fa rispetto ai cambiamenti climatici si stanno avverando?
“Ovviamente sono contento, davvero non me lo aspettavo. Sono ancora più contento del fatto che la scienza della glaciologia sia stata considerata come materia per il premio. Poi, il fatto che abbiano scelto me invece di altri colleghi, resta un mistero ed è difficile capire le motivazioni fino in fondo… Ma di sicuro ne sono molto felice”.
Professor Oerlemans, lavora in questo campo da tempo ormai. Quale pensa sia stata la più grande conquista della scienza del clima e quale il più grande fallimento?
“I risultati più importanti sono le scoperte che riguardano la storia del clima e la sua evoluzione nell’ultimo milione di anni che siamo riusciti ad ottenere dalle carote di ghiaccio. Così come la mappatura della topografia del letto delle principali calotte glaciali, che ha permesso di ottenere una stima del volume totale di ghiaccio sul globo e la scoperta delle relazioni tra condizioni meteorologiche e bilancio di massa dei ghiacciai (e quindi la sensibilità climatica). Mentre tra i più grandi fallimenti citerei l’aver sottovalutato la scomparsa del ghiaccio marino nell’Artico simulato dai modelli climatici e il fatto che non siamo ancora riusciti a sviluppare modelli numerici che tengano conto dei processi fisici per quanto riguarda i ghiacciai che terminano nel mare”.
Cosa pensa si debba o si possa fare per rallentare la fusione delle calotte polari e ridurre l’impatto dell’innalzamento del livello del mare sulle popolazioni vulnerabili?
“L’unica strada è ridurre il riscaldamento globale limitando le emissioni di gas serra di un ordine di grandezza. Anche se sono abbastanza pessimista… Le politiche internazionali rimarranno sempre un grosso ostacolo. Anche quando consideriamo il settore privato, dobbiamo ricordare che gioca sempre un ruolo opportunistico, il che non aiuta certo a risolvere il problema climatico”.
Però soffia un vento di speranza sulle chances che abbiamo di limitare i danni legati al cambiamento climatico. Molte persone si stanno concentrando su messaggi positivi, visto che pandemia, crisi economica e guerra ci stanno costringendo a vivere drastici cambiamenti. Non potrebbe essere un momento di svolta per fermare il cambiamento climatico?
“Non sono convinto che le persone siano pronte a cambiare del tutto il proprio stile di vita. Consideriamo le automobili, ad esempio. Sembra che molti ora siano orientati a comprare un veicolo elettrico e che questa scelta rappresenti una soluzione definitiva, ma sappiamo che non è così. Anche se i governi sembrano abbracciare questo cambiamento. Certo, è meglio guidare un mezzo elettrico rispetto a uno con motore a benzina, ma non basta…”.
Ritiene che la scienza e la politica si siano mosse allo stesso ritmo per affrontare l’emergenza climatica?
“La politica è molto indietro, come al solito. Nel 1989, trentatré anni fa, ho pubblicato sulla rivista Climate Change il primo (credo) articolo sul futuro innalzamento del livello del mare. Le proiezioni di oggi sono rifinite ma non sono significativamente diversa da quelle ottenute allora. Cosa stava aspettando la società?”
Ora su cosa si stanno concentrando i suoi studi?
“Concentro la mia energia nell’idea che dobbiamo accettare il fatto che la maggior parte dei cambiamenti predetti arriverà. Proviamo a prepararci. Per questo ho scelto di concentrarmi su progetti su piccola scala. Sono al punto in cui dico: il 90% di quello che avevamo previsto arriverà, quindi cerchiamo di trarne il meglio, almeno prepararci. Su scala più grande, quello che credo sia importante è che ora riceviamo così tanti dati dallo spazio che ci permettono di aumentare la nostra conoscenza dei processi in gioco, piuttosto che creare mappe”.