Oggi si guarda al sopra, domani si punterà al sotto. In tempi in cui Donald Trump mira a prendersi la Groenlandia per le sue risorse fossili e minerali o a stringere accordi per le terre rare dell’Ucraina e mentre altri stati Cina compresa vanno a caccia ovunque di minerali, nella Giamaica di Bob Marley si sta suonando un’altra musica: le nazioni stanno cercando una regola per poter iniziare a prelevare non dalla terra, ma dalle profondità degli oceani. In questi giorni a Kingston è infatti in corso un vertice dell’ISA (International Seabed Authority), autorità che dal 1994 è preposta al controllo e il coordinamento delle attività legate al “deep sea mining”, ovvero l’estrazione mineraria in acque profonde. Da anni si sta cercando un’intesa per regolare le estrazioni e adesso i rappresentanti di 36 Paesi, con visioni differenti, stanno tentando di arrivare tramite negoziato a una sorta di codice per l’estrazione dei minerali dagli abissi. Questo anche perché sempre più compagnie private a caccia di rame, cobalto e minerali di cui sono ricche le profondità, sono pronte a iniziare a scavare e stanno chiedendo i permessi per operare, tanto che alcune società come la canadese The Metals Company hanno dichiarato di voler iniziare ad estrarre ancor prima che venga definito un provvedimento chiaro per tutti. Siamo dunque al nastro di partenza di una nuova corsa che punta ad ottenere minerali rari dagli oceani.

Al centro del dibattito da sempre c’è però la stessa questione: una parte dei Paesi sostiene che l’estrazione mineraria in acque profonde sia meno dannosa di quella sulla terraferma e chiede un via libera, l’altra invece – sostenuta da associazioni ambientaliste come Greenpeace – sottolinea i potenziali danni ecologici alla salute degli oceani e chiede normative più ferree e chiare per frenare l’attività mineraria in profondità.

Nel frattempo, in un mondo che punta a cavalcare quella transizione ecologica che richiede grandi quantità di minerali, si studiano le zone dove questi sono più abbondanti, come la frattura di Clarion-Clipperton, nel Pacifico tra Hawaii e Messico, che fa gola a tanti per le sue ricchezze a quasi 6000 metri di profondità. In questo contesto e all’interno del dibattito finora però mancava, sull’impatto a lungo termine del deep-mining, una risposta da parte della scienza, che ora anche se parziale è finalmente arrivata. In una ricerca pubblicata sulla rivista Nature un team internazionale di ricercatori, per la prima volta, ha dato infatti conto di cosa succede all’ecosistema marino profondo decenni dopo le operazioni di deep sea mining. La risposta è che 44 anni dopo l’ estrazione gli ecosistemi e la vita marina non si sono ancora ripresi. L’analisi si è concentrata proprio nella zona di Clarion-Clipperton in un punto che è stato sito di un test di estrazione mineraria in acque profonde avvenuto nel 1979 nel Pacifico settentrionale. Ai tempi, con macchinari sperimentali, per soli quattro giorni da parte di privati fu estratta una quantità sconosciuta di noduli di metalli rari come cobalto, manganese e nichel, quelli usati oggi nei nostri dispositivi elettronici, per esempio.

Nel 2023 e nel 2024 i ricercatori del National Oceanography Centre di Southampton, insieme ai colleghi di diverse università britanniche, grazie a sistemi ROV (sottomarini a comando remoto) e telecamere sono tornati in quel sito osservando cosa accadeva nella “pianura abissale” a 5000 metri di profondità per tentare di stabilire così l’impatto ecologico di quei test del passato. La loro conclusione, dopo il confronto con aree limitrofe degli abissi non interessate da estrazione, è che il deep mining in quell’area dove si sono svolti i test ha lasciato “impatti biologici in molti gruppi di organismi, impatti che sono persistenti” anche 44 anni dopo, nonostante alcune specie abbiano iniziato lentamente a riprendersi. Di fatto è una prima prova di cosa succede agli oceani a lungo termine dopo le estrazioni. Gli scienziati spiegano che in quell’area sono ancora visibili i segni fisici del passaggio dei macchinari e sospettano che l’estrazione passata possa aver influenzato la vita marina per esempio a causa della privazione dei noduli, che producono ossigeno, così come per l’esposizione a sedimenti contenuti nel metallo che sono stati sollevati durante i processi di estrazione. Di fatto i noduli, di cui la zona di Clarion-Clipperton è ricchissima (si stimano 21 miliardi di tonnellate), in qualche modo “sostengono le comunità animali e microbiche” dicono gli esperti e la loro estrazione innesca dei cambiamenti.

Il professor Daniel Jones del National Oceanography Centre, a capo della spedizione, spiega che “quarantaquattro anni dopo le tracce minerarie stesse sembrano molto simili a quando furono realizzate per la prima volta, con una striscia di fondale marino larga 8 metri ripulita dai noduli e due grandi solchi nel fondale marino dove passò la macchina. Il numero di molti animali si è ridotto all’interno delle tracce, ma abbiamo visto anche alcuni dei primi segnali di recupero biologico”. Mentre i leader discutono durante le riunioni ISA su regole che gestiscano le attività minerarie in acque profonde, gli stessi scienziati ammettono che “i nostri risultati non forniscono una risposta definitiva alla domanda se l’estrazione mineraria in acque profonde sia socialmente accettabile, ma forniscono i dati necessari per prendere decisioni politiche più consapevoli, come la creazione e il perfezionamento delle regioni protette e il modo in cui monitoreremo gli impatti futuri”. Ma avvertono anche che dalle prime osservazioni pare che un recupero completo degli ecosistemi dei fondali marini sia “impossibile“.

Oltretutto, come noto, la nostra conoscenza delle creature che vivono negli abissi e dei loro servizi ecosistemici decisivi per la salute degli oceani è ancora bassissima: sappiamo pochissimo di cosa vive realmente laggiù. Potremmo dunque definire questa ricerca come un primo grande avvertimento in vista di un futuro dove sempre più nazioni e compagnie punteranno all’estrazione mineraria in acque profonde per ottenere i metalli essenziali richiesti dalle tecnologie, dall’intelligenza artificiale e dalla transizione energetica che mira all’azzeramento delle emissioni climalteranti. Uno studio che ci ricorda, sempre con il tono di avvertenza, anche un altro fatto: quei test del 1979 condotti da privati per capire se fosse fattibile recuperare i metalli erano molto ma molto più piccoli “di quanto sarebbe un vero evento di estrazione mineraria”.