Anche in questi giorni segnati dalle terribili conseguenze della guerra scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina il semplice evocare Chernobyl aumenta paure e angosce. L’avvicinarsi del conflitto alle zone della centrale nucleare responsabile della catastrofe del 26 aprile 1986 o ad altre centrali ucraine ci ricorda quanto accadde 36 anni fa e il pericolo ancora presente.

 

L’Italia nei giorni successivi alla catastrofe fu in prima fila con una mobilitazione civile che sfociò prima, su iniziativa di Legambiente, nella più grande manifestazione antinucleare europea che si tenne a Roma il 19 maggio con la partecipazione di 200.000 persone. E l’anno dopo con il referendum che fermò in Italia la scelta nucleare.

 

Molta acqua è passata sotto i ponti e l’opzione nucleare nel mondo e in particolare in Occidente non è stata fermata tanto dai referendum quanto dai problemi tecnologici e dai costi. Secondo Bloomberg, nel 2021 la potenza nucleare installata è diminuita di 3 GW (3000 MW) e quella delle fonti rinnovabili aumentata di 190 GW (190.000 MW). Paiono dunque francamente ideologiche e strumentali le proposte di rilanciare su grande scala il nucleare oggi: fatte per non cambiare rotta e puntare sulle rinnovabili che, proprio dopo la tragedia Ucraina, evidenziano il doppio dividendo di rappresentare anche una straordinaria occasione per dare anche stabilità e indipendenza alla nostra economia. Per quanto riguarda poi la ricerca sulla fusione, che presenta aspetti affascinanti e che sicuramente vale la pena di continuare, difficilmente porterà risultati utili prima della metà di questo secolo.

C’è però un’altra eredità del dopo Chernobyl che non ha a che fare con la tecnologia o l’energia ma che è preziosissima per affrontare il presente e il futuro. Nei mesi ed anni che hanno seguito la catastrofe, si è sviluppato nel mondo un grande movimento di solidarietà in particolar modo nei confronti dei bambini che vivevano nelle aree più contaminate. Per loro e per la loro salute era fondamentale trascorrere dei periodi lunghi in luoghi in cui respirare aria, bere acqua, mangiare cibi privi di residui radioattivi.

 

In queste settimane La7 ha trasmesso una intensa e bellissima serie di Sky (“Chernobyl” appunto). La serie era introdotta da un documentario in cui si diceva che il ruolo più importante nell’accoglienza dei bambini di Chernobyl fu svolto da Cuba. Questo non corrisponde al vero. La superpotenza della solidarietà in quell’occasione è stata l’Italia. I dati più attendibili su quanto accaduto sono quelli che ci vengono dalla Bielorussia: il 70% della contaminazione interessò infatti quella regione, allora dell’Unione Sovietica e i dati ucraini sono resi più opachi dal fatto che era la regione che ospitava la centrale. Dal 1986 al 2018 sono stati ospitati in tutto il mondo 930.000 bambini bielorussi. Di questi 457.000, quasi la metà, in Italia. È stato un movimento popolare ed istituzionale importante che ha coinvolto decine di migliaia di famiglie, parrocchie, associazioni, istituzioni locali. La sola Legambiente, unica associazione ambientalista attiva su questo fronte perché di stampo più umanistico, ne ha accolti 25.000. Di fronte ad una società che appare spesso spaventata, rancorosa, incattivita, qualcuno ritiene che questo tessuto civile si sia oggi irrimediabilmente impoverito. Non lo credo. La solidarietà è una parte importante della nostra cultura, di un’Italia che fa l’Italia. E occuparci degli altri non è solo bontà, perché rafforza la nostra capacità di affrontare oggi insieme, in tutti i campi, le sfide che abbiamo davanti. Inclusa l’accoglienza dei profughi. A proposito, Dmytro Ivanovyc Kuleba, attuale ministro degli Esteri ucraino, fu uno dei “bambini di Chernobyl” e fu ospitato più volte da Domenico Ventre un maresciallo irpino dei carabinieri e dalla sua famiglia.

Dobbiamo molto alle centinaia di migliaia di Rocco Ventre, volontari che in questa come in altre occasioni sono in prima linea. Fanno onore all’Italia e rappresentano una risorsa preziosa per la nostra coesione.

 

Sono inoltre parte anche di una politica estera degna di un grande Paese civile.

 

(*Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola)