Un tempo, nel cuore di Busto Arsizio, sorgeva il cotonificio Venzaghi; oggi, in quegli stessi capannoni, la società di consulenza informatica Reti spa ha stabilito il suo quartier generale. Risanando, pezzo dopo pezzo, la ferita lasciata dalla fine dello storico marchio dell’industria tessile e dimostrando che il futuro può germogliare dalle radici del passato. Così, dalla produzione e dalla tintura di filati si è passati allo sviluppo di servizi di “system integration” per supportare le aziende nella trasformazione digitale. Un’attività immateriale che mira a generare un impatto positivo tangibile sull’ambiente.

Attraversando gli spazi di questo vero e proprio campus, si notano subito le opere d’arte contemporanea e gli elementi di design disseminati ovunque. Poi ci sono i colori e i profumi degli alberi da frutto: una dozzina di meli, aranci e limoni coltivati in vaso che – a rotazione e in base alla stagione – vengono sistemati al chiuso, nelle grandi sale in cui si lavora, oppure vengono spostati all’esterno per permettere agli insetti impollinatori di compiere la loro missione. Si chiama “progetto Fruttufficio”, è partito un paio d’anni fa e non ha precedenti in Europa.

Le installazioni artistiche e le piante esprimono le idee che animano Bruno Paneghini, fondatore, presidente e amministratore delegato di Reti. Secondo lui, l’azienda dev’essere un luogo bello e stimolante, in cui dipendenti, collaboratori e clienti possano ritrovarsi e fare squadra; ma dev’essere anche una realtà perfettamente integrata con il territorio e con la comunità d’appartenenza. Una visione che Paneghini ha assorbito nel periodo trascorso alla Olivetti di Ivrea, dove ha iniziato la sua carriera, e che ha trasferito nella cittadina del Varesotto.

“Nel 1994, quando avviai l’impresa, ero solo e senza risorse fisiche – ricorda l’ad – piano piano il giro d’affari crebbe e subentrò la necessità di trovare un posto adatto alle esigenze della ditta. Perciò decisi di tornare a Busto Arsizio, terra d’origine dei miei genitori, e acquistai una villa ottocentesca in pieno centro. Quella che diventò la nostra sede e pure la mia abitazione”.

Tra il 2006 e il 2007, quindi, si apre una nuova fase. Mentre Reti continua a espandersi, Paneghini si rende conto che l’area abbandonata dell’ex cotonificio, adiacente alla sua proprietà, è ciò di cui ha bisogno. E la compra. “Il vecchio insediamento industriale – spiega – rappresenta il simbolo dell’epoca a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando questa città era considerata la Manchester d’Italia. Il sito occupa una superficie di 20 mila metri quadrati, che abbiamo dovuto bonificare, ed è composto da sette edifici; dopo averne inaugurati tre, stiamo ora ristrutturando il quarto”.

Con la riqualificazione, infatti, si mantengono le strutture principali esistenti. A cominciare dalla ciminiera, la più alta della zona. “Lo stabilimento non era sottoposto a vincoli – prosegue l’ad – ma ho voluto salvaguardare un pezzo importante della storia locale e, soprattutto, evitare ulteriore cementificazione. Non solo. In un’ottica di circolarità, ho scelto di usare legno riciclato per i pavimenti e materiali riutilizzabili come vetro o alluminio per le parti non in muratura. Infine, ho portato la tecnologia nella villa e nei capannoni, collegandoli con la domotica per gestire in maniera centralizzata funzioni come l’accensione e lo spegnimento delle luci. Così, si razionalizzano i consumi”.

Efficienza energetica e sostenibilità sono obiettivi che Reti s’è prefissata sin dal principio. Tanto da conquistare la qualifica di società benefit nel 2020 e la certificazione di B-Corp nel 2021: è la prima emittente italiana quotata in Borsa ad aggiudicarsi tale riconoscimento, conferito dall’organizzazione non profit B-Lab a più di 3.700 aziende a livello mondiale. L’impresa ha affrontato un percorso di valutazione, volto a misurare la capacita? di creare profitto con responsabilità, e s’è impegnata ad attuare un “paradigma rigenerativo”, ovvero a restituire al pianeta più valore di quanto ne assorba.

Come? Per esempio, puntando sull’energia rinnovabile: per soddisfare il fabbisogno del campus, si costruiscono tre impianti fotovoltaici e si sottoscrive un contratto di fornitura di elettricità con un gestore che ne garantisce la provenienza da sole fonti pulite. Dal monitoraggio dei consumi (compresi quelli di carburante per i mezzi aziendali e di metano per il riscaldamento) emerge che la performance energetica migliora e che la quota ricavata da fonti rinnovabili aumenta dal 4,9% del 2018 al 10,2% del 2020.

“Tutti gli edifici – riprende Paneghini – sono dotati di moderni dispositivi di climatizzazione e trattamento dell’aria. Con la pandemia, si sono rivelati doppiamente efficaci”. Gli oltre 300 dipendenti, poi, sono muniti di borraccia in acciaio e possono approvvigionarsi di acqua dai distributori. In ogni ufficio è presente un punto per la raccolta differenziata dei rifiuti, mentre la carta viene prelevata e smaltita da un operatore incaricato. La politica, comunque, è di limitarne al massimo l’uso. Anche le attrezzature elettroniche da dismettere vengono ritirate da un fornitore specializzato nel riciclo dei vari componenti.

“L’attenzione per l’ambiente s’accompagna a quella per le persone – sottolinea l’ad – fondamentali sono la formazione e l’aggiornamento costante dei nostri professionisti. Il campus ospita un Istituto tecnico superiore con due classi, ciascuna da 25 studenti under 30. Circa il 70% di loro resta con noi e non è un caso che il 55% dei neo-assunti rientri in tale fascia d’età… Reti si propone come catalizzatore di scambi culturali, abbiamo realizzato anche un auditorium a disposizione della cittadinanza”.

Il progetto “Fruttufficio”, invece, è una delle intuizioni recenti di Paneghini: “Durante un viaggio nella Silicon Valley, in California, visitai la sede di Apple. Mi colpì l’enorme pianta custodita in una teca, all’ingresso. Pensai che fosse uno spunto da imitare, a patto che il verde in azienda avesse un’utilità e non soltanto un ruolo estetico. Di qui, gli alberi da frutto”.

A Busto Arsizio, dunque, aggrega via via un gruppo multidisciplinare con ingegneri esperti di “Internet of Things” e intelligenza artificiale, un architetto, un agronomo che scelga gli esemplari giusti e ne segua il ciclo di vita, un fabbro che confezioni vasi ad hoc. Non è semplice passare con successo dalla terra ai vasi, dall’esterno all’interno: “S’è proceduto per tentativi e sperimentazioni. Sul mercato non esistevano strumenti per coltivare in condizioni simili. Alla fine, abbiamo capito come preservare lo sviluppo vegetativo, la fioritura e la maturazione dei frutti grazie a un sistema integrato e controllabile da remoto”.

Un sistema potenzialmente applicabile in ambiti diversi e incentrato su un algoritmo che interpreta i dati inviati da appositi sensori e immagazzinati su cloud. I sensori, appunto, definiscono lo stato di salute delle piante, rilevando umidità, temperatura, pH, CO2 e facendo scattare allarmi se qualcosa non va. Basta connettersi a un monitor per leggere le informazioni, per sapere quando e quanto occorra illuminare, concimare, innaffiare. E, nel caso, attivare in automatico gli impianti?. “Visto che tutto avviene negli uffici – conclude Paneghini – non possiamo impiegare pesticidi e adottiamo pratiche biologiche. Siamo fieri dei primi raccolti! Ai nostri collaboratori, poi, è stato regalato un kit per coltivare una piantina in casa”.