Come nello zodiaco cinese, ormai anche nel calendario dell’hi-tech ogni anno ha il suo animale-simbolo e il 2023 sarà l’anno del dodo. Da tempo, infatti, la startup biotech texana Colossal Biosciences ci ha abituati ad annunciare ogni anno l’avvio di un progetto per la “resurrezione” (o de-estinzione) di una specie estinta: il mammut lanoso nel 2021, la tigre della Tasmania nel 2022, il dodo nel 2023. Il 31 gennaio scorso, Ben Lamm, co-fondatore della Colossal, ha annunciato che stanno raccogliendo i fondi necessari per continuare la ricerca che proverà a riportare in vita l’uccello endemico delle Mauritius, a est del Madagascar nell’Oceano Indiano, a più di tre secoli dall’estinzione, per poi reintrodurlo nell’isola d’origine.

Il dodo (Raphus cucullatus) non è un animale qualunque. È un’icona. È la rockstar delle specie estinte, il simbolo della capacità dell’uomo di compromettere in modo irreversibile la biodiversità. Quella del dodo è una storia talmente nota da aver generato perfino un modo di dire, ormai entrato nell’uso comune della lingua inglese: “essere morti come un dodo”. Il primo esemplare di questo uccello delle dimensioni di un grande tacchino e incapace di volare venne avvistato dai marinai olandesi approdati sull’isola di Mauritius nel 1598. L’ultimo incontro con un dodo vivo viene riportato dalle cronache attorno al 1693, meno di cento anni dopo la sua scoperta. In mezzo, la deforestazione selvaggia per far posto alle coltivazioni di canna da zucchero; l’introduzione di specie aliene invasive tra cui ratti, maiali e macachi, capaci di competere per le risorse e predare le uova e i pulcini; la persecuzione diretta dell’uomo, con cani e gatti al seguito.

L’audace piano della Colossal Biosciences per riportare in vita la specie prevede tre fasi: l’introduzione di sequenze genetiche di dodo all’interno di specifiche cellule del suo parente più stretto, il piccione di Nicobar (Caloenas nicobarica), in modo da renderlo più simile possibile alla specie estinta; la creazione in laboratorio, a partire da queste cellule modificate, di cellule germinali in grado di dare vita a un embrione; l’impianto di queste cellule embrionali in una gallina che, al termine di una gravidanza surrogata, darà alla luce un pulcino di simil-dodo.

Il piccione di Nicobar è il parente geneticamente più prossimo del dodo
Il piccione di Nicobar è il parente geneticamente più prossimo del dodo 

“La versione finale emergerà da un piccione di Nicobar ingegnerizzato per assumere la taglia di un dodo. Così le dimensioni delle uova saranno compatibili” spiega Beth Shapiro, responsabile dei paleogenetisti della Colossal, che da oltre vent’anni sperimenta le tecniche di estrazione del DNA della specie da reperti museali e che il dodo ce l’ha pure tatuato sul braccio destro. Nel mese di marzo del 2022, Shapiro, che è anche professoressa di ecologia e biologia evoluzionistica alla University of California, Santa Cruz, aveva annunciato di aver completato il sequenziamento dell’intero genoma del dodo, premessa indispensabile per l’avvio del progetto di de-estinzione. 

Anche questa volta, dopo l’annuncio della Colossal si è riacceso il dibattito nella comunità scientifica fra gli entusiasti, una minoranza fatta per lo più di genetisti e biologi molecolari, che considerano intrigante l’idea della de-estinzione, e gli scettici, per lo più ecologi e naturalisti, che praticano la conservazione delle specie a rischio di estinzione “al di fuori dei laboratori”, preoccupati dal rischio che questi progetti possano sottrarre attenzione e risorse alla conservazione delle specie ancora viventi. Basta paragonare le somme per capire la questione: la Colossal ha raccolto 225 milioni di dollari di fondi per questo progetto mentre la più importante e longeva organizzazione non-profit statunitense che si occupa di conservazione della natura, il Sierra Club, arriva a malapena a 100 milioni di dollari di donazioni all’anno.

In effetti, viene da chiedersi quale sia il senso di un progetto come quello della Colossal. L’odierna Isola di Mauritius ha perso gran parte della foresta nativa che ospitava le popolazioni di dodo e rimane tutt’oggi invasa da quelle specie aliene introdotte dall’uomo che hanno portato il dodo all’estinzione. Quindi, prima di veder zampettare libero anche un solo simil-dodo sarebbe necessario un complicato e costosissimo progetto di eradicazione delle specie aliene e di ripristino della vegetazione originaria. È realistico tutto ciò? Forse stiamo perdendo di vista i problemi reali e il quadro complessivo.

È indubbio che ogni annuncio dell’avvio di un progetto come quello del dodo generi curiosità e speranze. Ma una volta finita l’eccitazione iniziale, cosa rimane nella sostanza? Qual è l’impatto reale di queste tecniche avanzate di ingegneria genetica? Hanno riportato in vita almeno una specie estinta? Come ci stanno aiutando ad affrontare la sesta estinzione di massa?

Al di là delle suggestioni, un contributo effettivo alla conservazione della biodiversità per ora non c’è stato e per il futuro si vedrà. Certo è che non possiamo sederci ad aspettare che la bacchetta magica biotech resusciti le specie estinte, mentre osserviamo la biodiversità che scompare in modo massivo (1 milione di specie a rischio di estinzione) e a ritmi vertiginosi (una specie ogni 10 minuti). Concentriamo gli sforzi sulla conservazione delle specie viventi, raccogliamo risorse, competenze e il supporto della società per realizzare progetti che sfruttino le più avanzate tecnologie disponibili per arginare concretamente la distruzione degli ecosistemi e l’estinzione delle specie.

 

*Andrea Monaco è uno zoologo ricercatore dell’Ispra