Dal 6 al 18 novembre 2022 si terrà a Sharm el-Sheik, in Egitto, la ventisettesima edizione della Conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, più comunemente nota con il nome di “Cop”. Alla Cop27 parteciperanno quasi 200 Paesi da tutto il mondo per discutere degli impegni e delle misure da portare avanti a livello internazionale per contrastare il riscaldamento globale causato dalle attività umane.

 

Uno dei temi su cui si confronteranno i Paesi partecipanti riguarderà l’avanzamento degli impegni presi alla Cop26, tenutasi a Glasgow, in Scozia, tra il 31 ottobre e il 12 novembre 2021. Dai soldi promessi ai Paesi in via di sviluppo alla lotta contro la deforestazione, gran parte degli obiettivi fissati a Glasgow l’anno scorso dai leader mondiali non sono stati rispettati o sono in ritardo.

I soldi ai Paesi in via di sviluppo

Nel 2019, alla Cop15 di Copenaghen, in Danimarca, i Paesi più sviluppati hanno sottoscritto il cosiddetto “Climate finance pledge”, un’iniziativa che li impegnava a fornire 100 miliardi di dollari all’anno, entro il 2020, ai Paesi in via di sviluppo per aiutarli a contrastare i cambiamenti climatici. La promessa è stata poi formalizzata nel 2010 alla Cop16 di Cancun, in Messico, e nel 2015 è stata estesa fino al 2025 alla Cop21 di Parigi, Francia.

 

Fino a oggi, l’impegno non è stato rispettato. Secondo i dati più aggiornati dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione internazionale (Oecd), che è stata incaricata dai Paesi partecipanti di tenere traccia dei progressi, nel 2020 sono stati investiti complessivamente 83,3 miliardi di dollari per il Climate finance pledge, circa 17 miliardi in meno rispetto all’obiettivo di 100 miliardi. Il risultato del 2020 è comunque più alto rispetto a quello di tutti gli anni successivi al 2013, quando erano stati investiti 52,4 miliardi di dollari, circa la metà di quanto promesso. Nelle conclusioni finali presentate lo scorso anno alla Cop26 di Glasgow, i leader firmatari avevano riconosciuto con “profondo rammarico” che l’obiettivo dei 100 miliardi non era ancora stato raggiunto, rinnovando l’impegno a investire ulteriori fondi entro il 2025.

 

Il tema è destinato a tornare al centro del dibattito anche in occasione della prossima Cop27. Nel corso della pre-Cop, una serie di incontri preparatori tenutisi a inizio ottobre a Kinshasa, in Repubblica democratica del Congo, i leader e i rappresentanti di alcuni Paesi in via di sviluppo hanno accusato i Paesi più ricchi di aver mancato ancora una volta l’obiettivo, chiamandoli a rispondere delle loro responsabilità. Secondo il quotidiano britannico The Guardian, il fallimento è stato definito “vergognoso” da alcuni ministri e rappresentanti di diversi Stati africani. Anche la vicesegretaria delle Nazioni Unite Amina Mohammed ha detto che quest’anno i Paesi più sviluppati dovranno “dimostrare chiaramente a che punto sono con la consegna dei 100 miliardi decisa più di dieci anni fa”.

 

Circa un anno fa, nel novembre 2021, l’inviato americano per il clima John Kerry aveva promesso che i fondi sarebbero stati consegnati entro il 2022. Come abbiamo visto, al momento i dati più aggiornati dell’Oecd arrivano fino al 2020, ma è improbabile che l’obiettivo dichiarato da Kerry sia stato centrato in anticipo. In ogni caso, la promessa sarà discussa nuovamente alla Cop27, 13 anni dopo il suo annuncio iniziale.

 

La promessa mancata della finanza

Ad aprile 2021, pochi mesi prima della Cop26 di Glasgow, 160 gruppi tra banche, grandi investitori e manager del mercato finanziario hanno creato la Glasgow financial alliance for net zero (Gfanz), con l’obiettivo di azzerare entro il 2050 le proprie emissioni nette di CO2, sia quelle frutto delle proprie attività sia quelle causate, per esempio, dai finanziamenti all’industria dei combustibili fossili. In un successivo intervento alla Cop26, il co-presidente della Gfanz Mark Carney aveva precisato che, prima ancora dell’obiettivo emissioni nette zero, i membri dell’alleanza si sarebbero impegnati a dimezzare del 50% le proprie emissioni entro il 2030, documentando i propri risultati anno dopo anno.

 

Oggi i membri dell’alleanza, tra cui ci sono le italiane Intesa Sanpaolo e Unicredit, sono più di 500 e controllano, nel complesso, asset finanziari per 135 mila miliardi di dollari. Le società della Gfanz sono organizzate in sottogruppi e devono rispettare i criteri fissati dalla Race to zero, una campagna delle Nazioni unite lanciata a giugno 2020 che riunisce migliaia di città e imprese impegnate ad azzerare le proprie emissioni nette entro il 2050. Questi criteri prevedono l’abbattimento delle emissioni di CO2 entro il 2050, l’obbligo di documentare i propri progressi e un rigido controllo degli investimenti nel settore dei combustibili fossili.

Sembra però che alcune società stiano rivalutando la promessa di tagliare le emissioni alla base della Gfanz. Come riportato a inizio ottobre da Bloomberg e dal Financial Times, a fronte della crescita che sta interessando i settori del gas e del petrolio alcuni membri dell’alleanza, tra cui il colosso statunitense Jp Morgan, potrebbero decidere di uscire dal gruppo, a causa dei criteri stringenti imposti dalle Nazioni Unite.

 

L’obiettivo degli 1,5°C

Alla Cop26 è stata riproposta la necessità di mantenere l’aumento delle temperature globali al di sotto della soglia di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. L’impegno risale all’Accordo di Parigi del 2015 ed è considerato fondamentale per ridurre l’impatto e i rischi dei cambiamenti climatici. I 194 Paesi firmatari dell’Accordo, tra cui c’è anche l’Italia, si sono impegnati a pubblicare periodicamente i Contributi a livello nazionale (in inglese National determined contributions, Ndc), per spiegare come intendono raggiungere i traguardi fissati e tenere sotto controllo la crescita delle temperature.

 

Anche in questo caso, la promessa sembra per il momento fuori portata. Uno studio pubblicato a settembre 2022 dall’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha calcolato che gli impegni presi dai Paesi per contenere l’aumento delle temperature entro gli 1,5°C dovrebbero essere almeno sette volte più ambiziosi rispetto a quelli sottoscritti finora. Secondo il Wmo, in base ai provvedimenti a oggi in vigore, entro il 2100 la temperatura media della Terra aumenterà di 2,8°C rispetto al periodo pre-industriale e di 2,1°C se tutti gli impegni aggiuntivi fossero raggiunti (uno scenario, come abbiamo visto, a oggi molto ottimistico).

 

Secondo un altro studio della Wmo, pubblicato a maggio 2022, esiste il 50% di possibilità che le temperature globali superino la soglia degli 1,5°C in almeno uno dei prossimi cinque anni.

 

I Paesi che hanno partecipato alla Cop26 si erano inoltre impegnati a rivedere e aggiornare i propri Ndc entro il 23 settembre 2022: solo 23 dei quasi 200 firmatari coinvolti hanno mantenuto la parola data.

 

Le promesse sul metano e la deforestazione

La maggior parte dei Paesi sta accumulando ritardi anche su una serie di obiettivi più circoscritti, dalle conseguenze comunque piuttosto rilevanti.

 

A Glasgow, 122 Paesi partecipanti hanno per esempio sottoscritto il Global methane pledge, un accordo con cui si sono impegnati a ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020. La situazione attuale non è incoraggiante. Come riportato dall’Amministrazione nazionale per gli oceani e l’atmosfera (Noaa) degli Stati Uniti, nel 2021 i livelli globali di metano nell’atmosfera hanno sfiorato le 2 mila parti per miliardo, il 162% in più rispetto ai livelli pre-industriali e il 15% in più rispetto alla media del periodo 1984-2006. L’anno scorso il valore è cresciuto di 17 parti per miliardo rispetto al 2020, l’aumento più consistente dall’inizio delle rilevazioni, nel 1983.

Fact Checking

A che punto siamo con la promessa di mille miliardi di alberi del G20

di Laura Loguercio (Pagella Politica)

A Glasgow, il 2030 è stato inoltre indicato come anno per la fine delle deforestazione. L’impegno è stato sottoscritto dai leader di quasi di 150 Paesi, tra cui Italia, Cina, Brasile, Russia e Stati Uniti, che complessivamente controllano oltre il 90% delle foreste attualmente presenti sulla Terra. Una parte rilevante dell’accordo intende fermare le pratiche che sostituiscono le foreste con allevamenti di bestiame o piantagioni di soia, cacao e olio di palma. Per raggiungere l’obiettivo, i Paesi coinvolti hanno promesso di stanziare 19 miliardi di dollari, tra fondi pubblici e privati, entro il 2025. Le notizie più recenti sono tutt’altro che incoraggianti. Nei primi sei mesi del 2022 il Brasile ha tagliato quasi 4 mila chilometri quadrati di foreste, un’area grande cinque volte la città di New York e un nuovo record dal 2016.