In Italia negli ultimi sessant’anni sono state reintrodotte in natura circa 200 piante che rischiavano l’estinzione o che erano già con un piede nella tomba. La prima, nel 1958, è stata il pino loricato, poi diventato simbolo del Pollino in Calabria. Poi è toccato all’abete delle Madonie in Sicilia, l’albero di Natale più raro del mondo. I reinserimenti si sono rivelati un successo e queste specie, con i loro tempi, si stanno riprendendo. Ma in tanti altri casi non è finita così bene e per molte piante non è rimasto che il biglietto di sola andata verso l’erbario. Da cosa dipende? I fattori sono diversi e sono stati affrontati nella prima conferenza internazionale sull’argomento organizzata nella capitale dalle università di Roma Tre e di Pavia.
In tutto il mondo la pratica del rewilding per riportare in natura organismi a rischio non ha mai esiti scontati. Per Trochetiopsis eritroxylon, una specie di ebano endemico della remota isola di Sant’Elena, non c’è stato niente da fare. Le reintroduzioni non hanno funzionato e la pianta non è sopravvissuta nemmeno ex-situ, ovvero in una coltivazione controllata. Ora è stata dichiarata estinta così come Cyanea Superba, un albero simile a una palma endemico dell’isola di Oahu nell’arcipelago delle Hawaii che pare riesca a riprodursi in cattività.
“Non è sufficiente avere una buona scorta di esemplari per garantire un futuro sicuro a una specie vegetale minacciata”, spiega Thomas Abeli, docente di botanica all’Università di Roma Tre e coordinatore della conferenza. “Se l’habitat è alterato la pianta farà sicuramente più fatica a tornare in natura. Come è accaduto per Stratiotes aloides, un’acquatica un tempo presente sia nei laghi di Mantova che nelle paludi del ferrarese. Non sono bastati oltre 500 individui per recuperare la specie perché l’ambiente originario aveva subito cambiamenti radicali ed è diventato inospitale per questa pianta”.
Ma non tutto ciò che è estinto è perduto per sempre. L’aumento del numero di aziende di agricoltura biologica nelle risaie italiane ha favorito la reintroduzione del quadrifoglio d’acqua, una felce palustre in passato diffusa nelle aree umide del Centro-Nord e molto richiesta dagli acquariofili. Uno dei più ambiziosi progetti in corso riguarda il salvataggio sugli Appennini centrali della scarpetta di Venere, un’orchidea spontanea, con un ciclo biologico non proprio semplice, che l’anno scorso è stata riprodotta per la prima volta in vitro nella banca del germoplasma dell’Università della Tuscia.
Una parte significativa di questa prima conferenza sulla Plant Translocation è stata dedicata anche alle isole del Mediterraneo che, malgrado la superficie modesta, ospitano il 7% della biodiversità vegetale globale. Tra Sicilia e Sardegna negli ultimi anni sono stati compiuti interventi di reintroduzione in natura per quasi una ventina di piante grazie al progetto europeo Care Mediflora a cui hanno partecipato l’Università di Catania e l’Orto botanico di Cagliari. Nell’elenco ci sono piante adattate ad ambienti estremi come l’astro marino siciliano, che tollera gli ambienti salini, o l’astragalo di Gennari, che sopravvive solo sui terreni calcarei del Monte Albo in provincia di Nuoro.
Sempre in Sardegna per proteggere dalle inondazioni il più anziano esemplare dell’alaterno dalle foglie a pesco (Rhamnus persicifolia), un arbusto endemico dell’entroterra centro-orientale dell’isola, i botanici nel 2018 hanno costruito una sorta di argine artificiale. Ma un’alluvione torrenziale, qualche tempo dopo, lo ha spazzato via. Oggi ne hanno fatto uno nuovo.