La crisi climatica fa sempre più paura ma solo a chi la soffre veramente. E cosa vuol dire soffrirne? Vuol dire vedere il frutto del proprio lavoro venir meno, vuol dire guardarsi intorno e rendersi conto che è a rischio il mettere insieme il pranzo con la cena per la propria famiglia, gli studi dei propri figli, il loro futuro. E poi, alla fine, anche il futuro degli esseri umani sul pianeta. La stragrande maggioranza di noi sente la crisi climatica, la avverte, ma è ancora ben distante da soffrirne seriamente. Se si innalzano le temperature a dismisura, si accendono di più i climatizzatori; se arrivano le calamità che creano impedimenti e danni, si ricorre ai bonus e agli aiuti (se arrivano) per mitigare e, quasi mai, compensare le reali perdite. Ma ci si rialza, ci si arrangia, si riprende. È un fatto di soldi, di investimenti.

 

Ma l’agricoltura no, la fertilità dei suoli no. Per quella non ci sono soldi che possano rimettere la strada nella giusta direzione. E quando la crisi raggiunge livelli senza precedenti, in quel momento si fa statistica e si comprende che non è la naturale oscillazione degli eventi. In Sicilia il grano non cresce più, è già parzialmente secco con oltre due mesi di anticipo rispetto ai tempi della mietitura tradizionale. La spiga è vuota, gli agricoltori continuano a prenderne alcune in mano e a sgranarle, nella speranza di vedere qualcosa di utile. Qualcuno ambisce, almeno, a rifare il seme investito nello scorso autunno, cioè quel paio di centinaia di chili ad ettaro che possano servire almeno per la prossima stagione. È un disastro, senza precedenti a memoria di chi ha già superato i cinquant’anni. Una siccità che ha messo a nudo le carenze strutturali e infrastrutturali della rete regionale. Ma anche la migliore infrastruttura non può compensare una crisi climatica devastante. Si parla di dissalazione (con costi energetici ignorati), si riprendono studi sul riuso delle acque reflue, qualcuno guarda alle specie tropicali senza rendersi conto che temperature e acqua non sono sempre così dipendenti l’una dall’altra. Qui siamo in una condizione in cui per l’acqua si attiva la competizione tra agricoltura e comunità. Acqua per gli agrumi e per la vite o acqua per le abitazioni e per i cittadini? Qual è la risposta corretta?

 

In un contesto come questo vediamo gli agricoltori di fronte a scelte complesse e dobbiamo probabilmente impegnarci di più a star loro accanto e non lasciarli soli. Come scegliere oggi tra tenere la barra dritta sperando in un futuro diverso o cedere alle sirene di chi propone l’installazione di pannelli fotovoltaici al suolo? Di fronte ad un’agricoltura sempre più in difficoltà, come trovare argomenti efficaci per impedire il consumo di suolo e la distruzione di un paesaggio agrario che è anima del nostro Paese? Qualcuno parla della trasformazione della Sicilia da granaio a batteria d’Italia, si sentono le voci di impianti da record europei se non mondiali. Si fa presto a tenere alta la confusione, tra fotovoltaico, agrivoltaico, eolico a terra, a mare, e via discorrendo. Si sta in barricata gli uni (i favorevoli) contro gli altri (i contrari). Mai però che ci si fermi a fare valutazioni coerenti e sistemiche. Abbiamo bisogno di transizione energetica ma anche ecologica, dobbiamo tutelare il nostro paesaggio e, come abbiamo recentemente scritto nell’articolo 9 della Costituzione, “la biodiversità, l’ambiente e gli ecosistemi”.

Tutto questo come si sposa con l’installazione a terra di un pannello? E perché i pannelli devono andare al suolo prima di averli diffusi in modo capillare sui tetti e nelle aree industriali? Molte risposte sono ancora da cercare, fuori dalla visione spinta da interessi di parte e provando solo a guardare gli interessi in modo sistemico, incluso quelli della natura e degli ecosistemi. A cominciare dal dare valore alla biodiversità che oggi è fonte di resilienza. Le varietà siciliane di grano duro, quelle della tradizione più che antiche, quelle lungamente abbandonate per far posto ai tanti quintali ad ettaro, soffrono ma sono ancora verdi, manifestano un maggiore adattamento a condizioni climatiche estreme. Ci sono varietà tradizionali di ortaggi da aridocoltura, quasi dimenticate, che sanno attraversare un’intera stagione senza essere irrigate. C’è da rigenerare suoli devastati da un’agricoltura industriale, in serra con varietà ibride funzionali ad una spinta destagionalizzazione che non è mai stata sostenibile e lo è ancora meno oggi che l’acqua non c’è. C’è da rivedere un intero modello produttivo, guardando agli equilibri ecosistemici per poter considerare reali prospettive agricole. E investire le risorse in modo diverso, cercando di sostenere il rafforzamento degli agricoltori virtuosi che credono nei principi di agroecologia, di accompagnare la conversione di quelli che vogliono diventare virtuosi, e provando a leggere le reali esigenze di un territorio che vuole giocare il proprio ruolo pur rimanendo un’isola, circondata dal mare che è l’unico vero e determinante ponte che deve unire con le altre terre. Di altri non c’è necessità.