Forse si risolverà il problema dei costi energetici, ma c’è bisogno di pioggia: tanta, subito e abbondante perché altrimenti, secondo gli allevatori italiani, il 2023 sarà un anno peggiore di quello passato. Il 2022 è stato infatti segnato da una prolungata siccità che ha praticamente dimezzato la produzione di formaggi e dall’impennata dei costi energetici di foraggio, paglia e mangimi che hanno messo in ginocchio molte imprese del settore. Secondo Coldiretti, a causa degli effetti postumi del cambiamento climatico e della guerra in Ucraina, è a rischio un patrimonio zootecnico di oltre 6 milioni di bovini e bufale, oltre 8 milioni di pecore e capre, più di 8,5 milioni di maiali, altrettanti conigli e oltre 144 milioni di polli.

Così l’allerta oggi è altissima tra gli allevatori italiani, un comparto economico che rappresenta il 35% dell’intera agricoltura nazionale, per una filiera che vale 40 miliardi di euro, con un impatto occupazionale rilevante, considerato che sono 800mila le risorse attive lungo tutto il ciclo produttivo. In particolare, ad allarmare gli allevatori sono i dati diffusi dalla Coldiretti sulla base delle rilevazioni Isac (Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima) del Cnr relativi al primo trimestre del 2023. Dati che segnalano una diminuzione media di acqua del 15% in tutto il Paese che impatterà anche sulle produzioni nazionali di mais e soia, i due ingredienti principali dei mangimi.

Già oggi, denuncia Assalzoo (associazione nazionale tra i produttori di alimenti zootecnici), la produzione nazionale di mangimi, che a fine 2021 era di 15,5 milioni di tonnellate, risulta decisamente più bassa per colpa della flessione della produzione del mais: prima il livello di autosufficienza era al 50%, oggi al 35%. Tutto il resto, al 90% proviene dall’Est Europa. Per quanto riguarda la soia, nonostante il nostro Paese sia il più grande produttore europeo, il raccolto nazionale riesce invece a garantire soltanto 700mila delle 3,6 milioni di tonnellate di farina necessaria ogni anno. Più o meno il 20%. Il resto arriva dal Sudamerica: la soia sotto forma di farina è quasi tutta argentina, quella sotto forma di semi è quasi tutta brasiliana.

Per gli allevatori, almeno un segnale positivo c’è: il voto a larghissima maggioranza della Commissione Agricoltura del Parlamento Ue che ha escluso gli allevamenti bovini dagli obblighi della Direttiva sulle emissioni industriali, eliminando ogni ulteriore aggravio per chi alleva suini e polli. Il pronunciamento, ora al vaglio dalla commissione Ambiente, va contro la proposta della Commissione europea di ampliare le attività coperte agli allevamenti di bovini da 150 capi in su, conosciuta come norma “ammazza stalle”, la quale – segnala sempre Coldiretti – potrebbe portare alla perdita di posti di lavoro con la chiusura di molti allevamenti di dimensioni medio-piccole, minando la sovranità alimentare, con il conseguente aumento della dipendenza dalle importazioni di prodotti animali da Paesi terzi, che hanno standard ambientali, di sicurezza alimentare e di benessere animale molto più bassi di quelli imposti agli allevatori dell’Unione. O, ancora peggio, e di spingere verso lo sviluppo di cibi sintetici in provetta, dalla carne al latte cibi sintetici.