È uno dei dilemmi di consumatori e policy maker: le nostre personali convinzioni riguardo alla sostenibilità spesso non si traducono in comportamenti d’acquisto coerenti. Si pensa green, insomma, ma al momento di riempire il carrello contano altre – ben più prosastiche – valutazioni. In primis, il prezzo. Il gruppo di lavoro guidato dalla professoressa Roberta Iovino della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha indagato le cause del divario tra buone intenzioni e comportamenti effettivamente agiti concentrandosi sui cellulari, piccole miniere di terre rare e materiali critici.
Secondo la ricerca (condotta nell’ambito del partenariato Grins del Pnrr), istruzione e alta disponibilità economica si associano più di frequente a scelte di acquisto sostenibili. Ma lo studio individua un altro aspetto interessante: a comprare cellulari basandosi su valutazioni che includono la sostenibilità (e a smaltirli correttamente) sarebbe soprattutto chi è in possesso del cosiddetto paradox mindset. Il concetto, ripreso dalla letteratura aziendale, indica l’attitudine di un manager a perseguire obiettivi in apparenza contraddittori senza semplificare eccessivamente l’orizzonte cognitivo. Trasferendo il ragionamento ai consumatori, si compra tanto più green quanto più si è in grado di farsi carico dello sforzo mentale necessario a trovare una sintesi tra costi, impronta carbonica, riparabilità e prestazioni del cellulare.
I dati sulle emissioni
Quello del recupero degli smartphone non è tema da poco: la politica, nazionale e continentale, è sempre più preoccupata dalla dipendenza dall’estero nel campo dei materiali critici necessari alla transizione energetica. E litio, nickel, cobalto, oro, palladio, terre rare contenuti nei telefonini possono dare un contributo decisivo all’autonomia in questo senso. Per non parlare delle emissioni.
Secondo uno studio condotto nel 2016 da Ericsson, un produttore, l’impatto di una smartphone durante l’intero ciclo di vita (stimato in tre anni, neanche troppo) sarebbe di 57 chilogrammi di CO2 equivalente, pari a 19 chilogrammi all’anno. L’indagine è stata condotta su un solo, specifico modello, ma i risultati possono essere considerati rappresentativi. E’ la produzione ad avere l’impatto maggiore (48 chilogrammi di CO2 equivalente), soprattutto quella dei circuiti integrati, che, oltre all’estrazione dei minerali, richiede condizioni di umidità e temperatura controllate nelle fabbriche.
La fase d’uso, qui intesa come l’impatto delle ricariche quotidiane, conta meno: solo 7 chilogrammi totali. Per avere un termine di paragone, l’impronta carbonica media annuale di una persona è stimata in 7.000 chilogrammi di CO2 equivalente. L’impronta annuale dei telefonini sale di molto (ben 62 chilogrammi per dispositivo) se nel conteggio si include l’uso della rete e dei data center associato ai servizi. Ma questo è un altro – pur fondamentale – tema. Le emissioni carboniche non sono l’unico fattore da considerate per un life cycle assessment corretto: ci sono il contributo all’acidificazione dei mari, l’eutrofizzazione, la produzione di particolato. Anche se, notano i ricercatori, nel tempo i telefonini hanno sostituito diversi dispositivi, a partire da orologi, fotocamere digitali e walkman. E questo aspetto va considerato.
Dati più aggiornati arrivano dalla società di consulenza Deloitte, secondo cui, nel primo anno di vita (che include le fasi di produzione, spedizione e distribuzione) uno smartphone genera 85 chilogrammi di CO2 equivalenti. Lo studio è del 2022. Conta molto, scrive Deloitte, l’approvvigionamento energetico delle fabbriche (l’elettricità per gli impianti deve essere prodotta da fonti sostenibili) ma anche la percentuale di materiali riciclati impiegati – e qui il riferimento è al settore estrattivo -. Anche leggendo i dati di Deloitte, il telefonino più sostenibile è quello che non viene prodotto: la buona notizia è che, secondo la società, i consumatori dei Paesi sviluppati tendono progressivamente a tenere i propri cellulari più a lungo, anche perché i dispositivi si sono fatti più resistenti. Sono anche portati a spendere di più per portarsi a casa un modello migliore, che, poi, è possibile rivendere più facilmente, recuperando fino all’80% del valore a un anno dall’acquisto. E il mercato dei dispositivi usati e ricondizionati sarebbe in crescita.
Il mercato dei ricondizionati
Per comprendere meglio, è necessario fornire qualche dato. Secondo la Commissione europea, che nel 2023 ha emesso una raccomandazione sul tema, i rifiuti elettrici ed elettronici (i cosiddetti Raee) crescono a un tasso medio del 2% l’anno nell’Unione, più di molte altre categorie. Nel 2019 in Europa sarebbero stati prodotti in media 16,2 chilogrammi pro capite di Raee, ma solo due terzi (10,5 chilogrammi) sarebbero stati raccolti separatamente per essere sottoposti a trattamenti adeguati. Il dato peggiora se si guarda ai cellulari: se ne raccoglie meno del 5% , e si stima che ben settecento milioni di apparecchi giacciano inutilizzati all’interno delle abitazioni.
Come se ne esce? Bruxelles raccomanda di fornire incentivi finanziari a chi conferisce il proprio dispositivo ai centri di raccolta, che li smontano e avviano il processo di recupero delle materie prime. Ma incentivi sarebbero auspicabili anche per chi li vende alle società che trattano device ricondizionati, riportati, cioè, a uno stato vicino al nuovo grazie a interventi di riparazione e controlli. Il mercato italiano, secondo Certideal (tra gli operatori più noti del settore) varrebbe nel complesso circa un miliardo di euro all’anno.
Ma quali sono le dimensioni rilevanti nella scelta di un dispositivo ricondizionato? Secondo l’azienda, il prezzo rimane il fattore principale nella scelta. Ma altre caratteristiche giocano un ruolo: la durata della garanzia, per esempio, sarebbe un aspetto fondamentale. “Noi ne offriamo una di ventiquattro mesi che rassicura i clienti su qualità e affidabilità dei nostri prodotti” afferma la società. “Anche sicurezza del servizio e trasparenza del processo di ricondizionamento giocano un ruolo cruciale nel costruire la fiducia” aggiunge l’operatore. Secondo cui, però, qualcosa sta cambiando e “sempre più clienti scelgono dispositivi ricondizionati non solo per risparmiare, ma anche per ridurre l’impatto ecologico associato alla produzione di nuovi dispositivi”.
Apple la farebbe da padrona nel comparto dei ricondizionati “con oltre il 90% delle nostre vendite” comunica Certideal. Il futuro del settore? “Nella mia visione della telefonia di domani vedo una distribuzione equa tra prodotti nuovi e ricondizionati, simile a quanto già avviene nel mercato delle auto” chiosa il growth marketing manager Salvatore Macrì. “Questo equilibrio – aggiunge – sarà guidato non solo dalla convenienza economica, ma anche dalla crescente consapevolezza ambientale e dalla qualità migliorata dei dispositivi ricondizionati. I consumatori riconosceranno sempre più il valore dei prodotti ricondizionati, spingendo il mercato verso un modello più sostenibile e accessibile”.
I Restart Party
Non mancano le idee interessanti. Se gli operatori professionali ne hanno fatto un business tout court che include messa a punto e vendita, esistono anche approcci ibridi al recupero dei cellulari. Negli Stati Uniti Ifixit vende parti di ricambio e fornisce al contempo manuali di riparazione che spiegano passo per passo come intervenire autonomamente sul proprio dispositivo per prolungarne la vita. Al momento sono disponibili 107.168 manuali gratuiti e, grazie ai tutorial forniti dal sito, sarebbero state eseguite oltre cento milioni di riparazioni. Il progetto ha aggregato una piccola comunità (ne esiste anche una versione italiana) ed è attivo nella lotta per il diritto alle riparazioni, su cui insiste da tempo anche l’Unione europea. C’è anche una lista di aziende amiche, che comprende alcuni grandi nomi del tech globale che hanno dimostrato sostegno. A far rumore, in questo caso, sono gli assenti.
Più casalingo, invece, è l’approccio di Restart Project, iniziativa nata a Londra da un’idea dell’italiano Ugo Vallauri: organizza eventi di riparazione in tutto il continente in cui tecnici esperti assistono sprovveduti cittadini che non si rassegnano a cestinare telefonini (ma anche asciugacapelli, microonde, tostapane) ancora recuperabili. A volte basta poco per non buttare un oggetto. E probabilmente, fra qualche anno, rivedremo il consumismo di inizio millennio come una stagione insopportabilmente cheap.