La sua passione per le questioni ambientali e la gestione degli impatti del cambio climatico è nata con il primo lavoro nel settore della silvicoltura, in Australia. Molto presto però Andrew Harper, oggi consulente speciale per l’azione sul clima dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, si concentra su come affrontare l’emergenza climatica e insieme come assistere al meglio le persone sfollate a causa dei disastri naturali. Abbiamo incontrato Harper a Roma, dove per l’Unhcr ha siglato un accordo con il Cgiar (un insieme di organizzazioni internazionali impegnate nella ricerca sulla sicurezza alimentare) per studi e raccolta di dati utili a costruire e organizzare strutture di accoglienza resistenti al clima, migliorare l’accesso ai servizi di base e rafforzare le capacità di adattamento delle persone costrette alla fuga e delle comunità che le ospitano.
Una delle emergenze peggiori che ha dovuto affrontare in passato è stata l’organizzazione dei campi profughi in Giordania. Come si fa a mettere in sicurezza le persone nel deserto?
“”Ogni notte arrivavano dal confine siriano tra le 4 e le 5mila persone e il nostro compito immediato era di provvedere ai loro bisogni primari: coperte, materassini, assistenza sanitaria. Ma bisogna tenere conto che ai rifugiati non viene mai assegnato un territorio ottimale, perché quei terreni sono già presi, o coltivati, quindi si prende quello che c’è, e dobbiamo organizzare la loro vita in un luogo dove le risorse naturali non ci sono. Il campo di Zaatari ospitava oltre centoventimila persone che erano fuggite dai combattimenti e piene di ansia per quello che il futuro avrebbe riservato loro. Verso queste persone avevamo l’obbligo di non garantire soltanto la sopravvivenza, ma di dare loro un senso del futuro. In quel caso abbiamo lavorato con la fondazione Ikea e costruito un impianto solare da 12,9 megawatt che ha portato elettricità pulita ai residenti del campo e ai villaggi vicini. L’elettricità significa consentire ai bambini di avere più ore per fare i compiti, di conservare meglio gli alimenti e migliorare l’illuminazione stradale per mantenere la sicurezza. Non solo, distribuendo l’elettricità oltre il campo abbiamo avviato un processo di integrazione e fornito energia pulita al posto di quella generata da una vecchia centrale a carbone. È un esempio di quel che dovremmo fare sempre di più”.
In questo caso, il dover accogliere molte persone metteva anche a rischio l’ambiente?
“Dove c’è un campo rifugiati c’è sempre uno sfruttamento maggiore delle risorse che crea problemi a tutti. Proprio per questo, se non troviamo soluzioni che salvaguardino l’ambiente, non possiamo aspettarci che le comunità locali proteggano i rifugiati. La protezione dell’ambiente è sempre uno dei fattori chiave dell’aiuto alle persone rifugiate e sfollate. Questo è molto evidente in Chad, uno dei paesi considerati più vulnerabili al mondo dal punto di vista ambientale, dove stanno arrivando centinaia di migliaia di rifugiati dal Sudan. Non possiamo pretendere che questi Paesi accolgano i rifugiati se non ci prendiamo cura del loro ambiente e delle loro risorse: per noi è fondamentale non contare soltanto sul sostegno finanziario, ma trovare partner come agenzie e istituzioni che possano investire in progetti di adattamento climatico”.
Quanto è complicato trovare investitori?
“Incontriamo i maggiori portatori di interesse nei progetti ambientali e nel contrasto al cambio climatico, ma la difficoltà sta nel far cogliere loro l’importanza della protezione delle persone costrette alla fuga nei loro obiettivi, perché fondazioni e banche sono interessate a vedere subito dei risultati. Cerchiamo di usare a nostro favore il fatto che, come UNHCR, siamo presenti in aree dove abbiamo la massima competenza per capire i bisogni dei rifugiati e delle autorità locali e, insieme al Comitato Internazionale della Croce Rossa e a grandi ONG, spingiamo i finanziatori ad interessarsi più alle persone che ai profitti. Non ha senso che le banche per lo sviluppo finanzino operazioni per piantare alberi in Europa o in Canada, i veri bisogni sono altrove, in Kenya, in Somalia, in Mozambico, in Bangladesh”.
La guerra alle porte dell’Europa, quanto sta accadendo in Ucraina e in Israele, ha rallentato i vostri progetti di adattamento climatico?
“Naturalmente la guerra in Ucraina catalizza le attenzioni, ma questo non significa che la vita di qualcuno in Africa debba interessarci di meno, è semplicemente una questione di umanità. C’è chi sta morendo di fame in Africa e di recente il Programma Alimentare Mondiale ha dovuto tagliare le razioni di cibo del 50% in alcune aree, cosa che aumenta le migrazioni. Non possiamo concentrarci così tanto sulle COP e cercare consenso, abbiamo bisogno di azioni immediate”.
Non crede nell’utilità delle Cop?
“Siamo già alla COP29, che si terrà a Baku, in Azerbaijan. Il punto è che abbiamo bisogno di concentrarci sui Paesi che subiscono le conseguenze maggiori del cambiamento climatico. I nostri sforzi devono mirare a dare più spazio possibile a chi già vive la crisi climatica, fare in modo che siano protagoniste delle decisioni che vengono prese. Ci sono oltre 114 milioni di persone in fuga nel mondo che, così come le comunità indigene, dovrebbero avere l’opportunità di parlare in prima persona. Questo significa anche ripensare il modo in cui vengono prese le decisioni politiche: non possono avere rappresentanza soltanto gli stati membri, ma anche le comunità. Negli ultimi anni si sono fatti progressi nel dare voce alle popolazioni indigene, ma bisogna impegnarsi perché le persone in fuga possano prendere la parola non solo alle COP, ma in altri vertici”.
Perché è importante fare differenza tra i rifugiati politici e climatici?
“Se le persone abbandonano il loro Paese per una guerra, o perché sono perseguitate, significa che sono state oggetto di un attacco e i loro governi non sono stati capaci di proteggerle. Nel caso dei cambiamenti climatici, spesso i governi hanno provato a proteggere le proprie popolazioni, ma si tratta di eventi che vanno oltre i governi e la capacità di adattamento delle comunità. C’è un’enorme differenza in termini di bisogno di protezione internazionale e anche i termini usati per definirli sono importanti. Inoltre, ed è quello che cerchiamo di fare con l’accordo appena siglato con il CGIAR, studi e dati ci aiutano a individuare le aree più vulnerabili per attivarci e cercare strategie di adattamento”.
Come riassumerebbe in questo momento l’azione dell’UNHCR riguardo la crisi climatica?
“Come accennato, ci impegniamo per limitare gli effetti dei cambiamenti climatici su popolazioni che sono state già sfollate e poi cerchiamo di anticipare quanto può accadere nelle aree vulnerabili, per avviare partnership e azioni per investire nell’adattamento e nella mitigazione. Non possiamo più essere un organismo di risposta alle crisi, dobbiamo fare prevenzione. Mi preoccupa vedere che rispetto alla crisi climatica molti non abbiano ancora colto la gravità della situazione. Non è costruendo muri che fermeremo le persone costrette a migrare per gli effetti del riscaldamento globale e queste persone non sono una minaccia per noi: siamo noi che le stiamo mettendo in pericolo con le nostre politiche non sostenibili. Una trasformazione è indispensabile, perché il riscaldamento globale è irreversibile, le decisioni che prenderemo devono essere globali, è una questione di cittadinanza globale: tutti subiremo le conseguenze, ma dobbiamo occuparci subito di chi sta già perdendo tutto”.