Il Giappone alla sfida della cucina (e del turismo) per vegani e vegetariani. Sembra una contraddizione, ma il Paese del Sol Levante è uno di quelli dove chi pratica una dieta che non ammette alimenti di origine animale, diretta o indiretta, fatica di più a portare a casa le calorie necessarie al sostentamento. Un problema che, complici le difficoltà di natura linguistica, diventa ancor più difficile da risolvere per un turista internazionale che segua quei regimi alimentari. Sembra quasi un controsenso nella terra dei grandi monasteri shinto e buddisti; nelll’arcipelago che venera la natura e la lentezza – oggi, è vero, contagiata dalla frenesia di una società hi-tech, ma in un particolarissimo melange che solo là può esistere e avere una sua coerenza -. Un ossimoro per quella cultura che ha tramandato i cervi sacri di Nara e i templi con i cammini frastagliati di porte rosse che attraversano i boschi e in qualche caso arrivano addirittura sul mare; per quella società che ha fatto arrivare al ventunesimo secolo uno regimi alimentari più leggeri e garanti di lunga aspettativa di vita al mondo. Certo, c’è anche il rovescio della medaglia. Sushi e in generale tradizione peschereccia – balene incluse – secolare mostrano un altro rovescio della medaglia. Però, vuoi per quel comune sentire – errato, anche solo biologicamente – che in molti casi non mette sullo stesso piano pesci e animali terrestri – al punto che esiste anche il pescetarianismo, che permette il consumo di prodotti ittici e /o di invertebrati acquatici -, vuoi per l’ampio uso che l’ars culinaria nipponica fa di verdure e alimenti di origine vegetale. Sicuramente, pensare all’arcipelago dominato dal Monte Fuji come ad uno dei luoghi meno accessibili da chi sceglie una tavola animal free, non è sinapsi immediata per i più.
Il Paradosso giapponese
Si potrebbe definire Paradosso giapponese – il riferimento è al French paradox, quello di una popolazione, la francese, che vive a lungo nonostante il relativamente alto uso di carni e vino rossi – lo status di una comunità che è tra le più longeve del pianeta a dispetto di una dieta ricca di pesce e carne, e che non fa neppure economia di fritti. E proprio la tradizione culinaria nipponica – così diversa da qualunque altra, come unico si presenta, sotto ogni punto di vista, il Sol Levante a chiunque vi metta piede per la prima volta – è diventata nel corso degli ultimi anni una delle principali attrattive turistiche del Giappone, anche e soprattutto per chi arriva da aree geograficamente e culturalmente remote. Almeno per la maggioranza onnivora dell’umanità e del turismo globale.
Ma negli ultimi tempi, e in particolare ora che il turismo internazionale ha ripreso a volare, e che in ogni angolo del pianeta si cercano idee per attrarre ospiti e recuperare per quanto possibile il tempo perduto, Tokyo scorge, proprio nella tradizione culinaria, o almeno in quella ormai diventata “di massa”, uno dei suoi possibili talloni d’achille e prova a porvi rimedio.
Le difficoltà extra per i turisti
Per chi non avesse mai frequentato l’arcipelago, la cucina giapponese è tutt’altro che circoscritta a sushi e sashimi. Esistono non solo altre tipologie di piatto, ma di ristorazione: grigliate, fritti, pasta. In ogni caso, però, è estremamente improbabile trovare locali dove si possa consumare cibo completamente privo di alimenti di origine animale. La ricerca, di per sé improba, diventa proibitiva per un turista straniero. Seppure con gli anni le cose siano molto migliorate al riguardo, ancora oggi, man mano che ci si allontana da Tokyio – e dai ristoranti stellati – diventa sempre più improbabile trovare indicazioni stradali, insegne, e menu, scritte in un linguaggio diverso dalle varie forme di kanji. E l’inglese parlato è meno diffuso di quanto si pensi. Una delle situazioni classiche che ci si può trovare ad affrontare in un ristorante è un menu solo in kanji, nella migliore delle ipotesi affiancato dai disegni o dalle fotografie delle portate, e nessuno che parla una lingua diversa dal giapponese.
Da tutto questo nasce, a Tokyo, una delle grandi sfide del dopo pandemia: creare una forma di cucina locale tradizionale a prova di vegano e vegetariano. Ma la strada da percorrere è lunga. Tina Bui, 36enne vegana di San Francisco – racconta all’agenzia di stampa France Presse di aver molto apprezzato la versione “meat free” del karaage, il classico pollo fritto, che il ristorante vegano Izakaya Masaka della capitale nipponica propone in una versione a base di carne di soia. Ma aggiunge che le opzioni di cibo completamente vegetali rimangono esigue, rispetto agli Stati Uniti, e che quello che si trova è “appena sufficiente a sopravvivere” durante un viaggio breve.
Tokyo, prove da metropoli “veggie friendly”
Ninna Fujimoto, del governo metropolitano di Tokyo spiega che la città sta cercando di aiutare i turisti a trovare la migliore sistemazione possibile, anche grazie all’espansione della diversità dell’offerta alimentare, cucina vegetariana compresa. La città pubblica una guida ai ristoranti vegetariani, offre sussidi ai titolari di locali che chiedono una certificazione “veggie friendly” e ha incluso due chef, vegano e vegetariano, tra i suoi “ambasciatori del turismo”.
Uno di loro è Katsumi Kusumoto, di Saido, locale che offre versioni vegan di piatti classici giapponesi, tra cui un’anguilla grigliata creata con tofu e verdura. “A Tokyo ci sono moltissimi ristoranti stellati Michelin, il più alto numero nel mondo – dice ad AFP in un locale dove non c’è un posto libero -. Ma, rispetto ad altre metropoli, quelli vegani e vegetariani sono pochissimi”. “È triste che così tante persone siano escluse dal circuito dell’alta cucina della città”, conclude lo chef, che onora il suo ruolo di ambasciatore postando sui social media lezioni teoriche e dimostrazioni pratiche di cucina vegana”.
I progetti pro cucina “verde”
Haruko Kawano, fondatrice della non-profit VegeProject Japan, è a sua volta impegnata nello sforzo di implementare a Tokio forme di cucina più “inclusive”. “Molti ristoratori sono convinti che creare piatti vegani sia molto, molto difficile – racconta. “Questo perché in Giappone i vegetariani e i vegani sono pochi, il che rende più difficile conoscere le loro necessità e i loro desideri”. Alcuni chef sono poi riluttanti ad abbandonare ingredienti come il dashi, il brodo di pesce utilizzato per dare sapore ad alimenti che, senza quel condimento, sarebbero vegani al 100 per cento. “Esistono ottimi dashi prodotti senza uso di ingredienti animali – agginge Kawano -. Se solo i cuochi li provassero, e verificassero quanto sono buoni, molto probabilmente riuscirebbero a utilzzarli per creare deliziosi piatti, autenticamente giapponesi”.
VegeProject ha recentemente partecipato a un progetto per trasformare la città di Ikaho, mella regione di Gunma, 150 km circa a Nord-est di Tokyo, in una località modello per i potenziali turisti vegetariani e vegan. Altre città stanno varando iniziative simili. Una di queste è Sapporo, il capoluogo dell’Hokkaido, il cui comitato di promozione turistica ha pubblicato su web una serie video sui suoi ristoranti e caffè vegetariani.
La scuola della cucina dei monaci
In Giappone manca una quantificazione precisa del fenomeno del vegetarianismo-veganismo. I dati, pochi e disomogenei, indicano che solo una piccolia quota della popolazione adotta questo stile di vita e di consumo. Eppure, il concetto è tuttì’alto che nuovo, nel Paese, dove la cucina vegetariana buddista, “shojin ryori”, è stata adottata per secoli. Ai giorni nostri viene servita prevalentemente nei templi, in alcuni ristoranti specializzati. E adesso in una scuola di cucina installata a Kamakura, località di mare a una sessantina di km a Sud di Tokyo, poco oltre Yokohama. Al workshop, l’esperta Mari Fujii dimostra a persone anche stranerie come creare la kenchinjiru – una salsa vegetale – e altri contorni. “Tra i partecipanti abbiamo vegetariani – racconta – ma anche persone intersesate alla filosofia e alla cultura che sono all’origine di quest’alimentazione – racconta Fujii, vedova di un monaco buddista.
La conversione (temporanea) al contrario
Essere vegetariani in Giappone, nonostante gli sforzi recenti, rimane una sfida. Ashley van Gool, Pr manager di Izakaya Masaka è convinto che Tokyo possa “definitivamente” diventare una metropoli della “diversità” culturale culinaria, al pari delle grandi capitali occidentali. “Ha già molto migliorato negli ultimi anni”, aggiunge raccontando che, per esempio, molti ristoranti hanno cominciato a offrire una o due portate vegetariane.
Sarebbe bello – viene da aggiungere – che il tutto potesse accadere senza la minima perdita di quell’identità – anche culinaria – che fa di Tokyo una delle poche metropoli mondiali nelle quali, quando entri nel downtown, continui a sentirti a Tokyo, e non nel blob indistinto di vetro, cemento, loghi e masse umane addobbate allo stesso modo, in cui ci si immerge nelle capitali di nome e di fatto di ogni angolo del globo.
Un’unicità che è così forte, anche in cucina, che può accadere che un vegetariano – lo ha raccontato ad Afp la turista austriaca Laura Schwarzl – decida di soprassedere temporaneamente ai propri principi. La giovane ha confessato di aver ceduto di fronte a un’offerta culinaria “molto speciale”. “Appena lascerò il Giappone, tornerò vegetariana”.