Claudia Pasquero ha deciso di studiare Fisica perché non si accontentava di spiegazioni superficiali e voleva sapere come funziona ogni cosa sul Pianeta. Serena Giacomin si è appassionata di fenomeni atmosferici mentre andava in barca a vela. Chiara D’Ambrogi ha avuto un amore estemporaneo per la Geologia alle superiori, dopo una gita all’Istituto di Geofisica. Sonia Calvari aveva una professoressa di scienze molto dotata che le ha trasmesso la stessa passione. Martina Capriotti ha scelto Biologia Marina perché nel mare ci è nata e cresciuta. Giuditta Celli non si sentiva portata per le materie umanistiche e dopo aver studiato Chimica ora si dedica alle Scienze Polari. Sono scienziate che studiano il clima, l’oceano, i ghiacci, le rocce, i vulcani. A volte con qualche difficoltà in più rispetto ai colleghi uomini.
“Quando ho comunicato che avrei studiato Fisica un professore del liceo ha fatto una risatina: ‘Giacomin, ma cosa sta dicendo?'”, ricorda Serena Giacomin, 37enne milanese, meteorologa, climatologa e presidente di Italian Climate Network. Esperienza simile a quella di Sonia Calvari, quasi 60 anni e una laurea in Geologia in Calabria, oggi vulcanologa e dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia a Catania: “Mio padre e i miei professori mi dissero che non era un mestiere da donna, ma non potevano fermarmi. Quando una ha la determinazione e la passione non c’è opposizione che tenga. A me ha fatto venire solo più voglia di continuare”.
La determinazione ha permesso a queste scienziate di raggiungere i loro obiettivi, ma i numeri raccontano una situazione più complessa. Nel 2020 le laureate in materie Stem – acronimo inglese che sta per Scienza, Tecnologia, Ingegneria, Matematica – sono state il 18,9%. L’anno accademico successivo le immatricolate il 21%. In entrambi i casi la metà rispetto agli uomini. Secondo i dati raccolti da AlmaLaurea la possibilità che una donna si laurei in un percorso Stem è del 69,3% inferiore agli uomini, nonostante di media ottenga migliori risultati dei coetanei maschi e frequenti più spesso un liceo.
Le cause di questa discrepanza sono diverse e articolate, ma lo stereotipo che le materie scientifiche siano ‘roba da uomini’ inizia presto, si perpetua nelle scuole, all’università e si riflette nel mondo del lavoro con contratti meno stabili e retribuzioni più basse. “Noi donne – sospira Giacomin – dobbiamo essere più brave per dimostrare le stesse capacità di un uomo. Io ho deciso di affrontare gli stereotipi con la competenza, ma è faticoso: partiamo sempre da un gradino inferiore”. Ecco perché è ancora necessario celebrare l’11 febbraio la Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza, una ricorrenza istituita dall’Onu nel 2015 per incentivare un accesso paritario delle donne alla scienza, promuovere l’uguaglianza di genere in questo campo e raggiungere una piena parità di opportunità nella carriera scientifica. E proprio in questa data Giacomin è tra le speaker di un’iniziativa sul tema organizzata dall’Università dell’Aquila e dal Gran Sasso Science Institute, mentre D’Ambrogi partecipa all’evento della Divisione Diversità, Equità, Inclusione della Società Geologica Italiana.
Giacomin si occupa sia di progetti di ricerca su gestione dei rischi climatici e prevenzione dei danni, sia di divulgazione nelle scuole per ragazzi e docenti. “Ho anche una rubrica sulle previsioni del tempo in tv – racconta – e spesso, solo perché sono donna, pensano che sia una sorta di valletta, non una fisica. Di un uomo nel mio stesso ruolo al massimo pensano che sia un militare dell’aeronautica”. È un problema di percezione distorta, di come il mondo vede le donne e di come loro stesse si vedono. Secondo Save the children, tra gli studenti con alto rendimento nelle materie scientifiche, solo 1 ragazza su 8 si aspetta di lavorare come ingegnere o in professioni scientifiche, a fronte di 1 su 4 tra i maschi. Un pensiero che poi si ripercuote sulla realtà: nelle aree Stem le giovani rappresentano il 41% dei dottori di ricerca, il 43% dei ricercatori accademici, solo il 20% dei professori ordinari e tra i rettori italiani solo il 7% sono donne.
“L’uguaglianza dovrebbe essere basata solo sulla competenza. Essere presa solo perché donna, o appartenente a qualsiasi cosiddetta minoranza, mi fa ribrezzo”, sostiene Claudia Pasquero, piemontese di 49 anni con una cattedra in Oceanografia all’Università Bicocca di Milano. Certo non si può ridurre tutto a una questione di quote rosa, ma la rappresentazione delle donne nella scienza è importante. La presenza di colleghe, anche se con pochi ruoli di responsabilità, è stata importante nel percorso di Chiara D’Ambrogi, 52enne romana da 5 anni responsabile della sezione Rilevamento Geologico del Servizio geologico d’Italia dell’Ispra: “Diceva a me e a tutte che nella Geologia c’era spazio anche per noi donne. La rappresentanza plasma l’immaginario, dà degli esempi a cui ispirarsi”.
Gran parte del lavoro di D’Ambrogi è sul campo, in giro tra montagne e colline per rilevare le rocce del territorio e sviluppare delle carte geologiche. “È un lavoro impegnativo dal punto di vista fisico e della gestione del tempo, le donne sono poche”. E la carriera, nonostante sia arrivato il riconoscimento, non è stata sempre facile. “Non è stato vero e proprio ostracismo, ma c’erano delle resistenze legate proprio al fatto che quegli ambienti erano tradizionalmente fatti da uomini, per gli uomini”.
Poi ci sono le discriminazioni, quelle vere. Giuditta Celli, 29 anni, nata e cresciuta nella valle del Casentino, ad Arezzo, prima di prendere il largo verso l’Antartide, lo ha sperimentato sulla sua pelle, quando ancora faceva analisi di campioni ambientali per privati. “A un colloquio di lavoro mi è stato proprio detto che sarei stata perfetta, se non fossi stata donna. Sarebbe stato problematico se avessi voluto fare un figlio”, racconta. E aggiunge: “È stata un’esperienza orribile, ma lì ho imparato a lottare per i miei diritti, a non abbassare mai la testa. Perché se ci si arrende non cambierà mai nulla”.
Anche la famiglia è un tema che spesso influenza la scelta del percorso professionale. Ma Pasquero è la dimostrazione vivente che la vita da scienziata si può conciliare con la vita privata: “Ho 4 figli nati nel giro di 5 anni e mezzo, che mi sono sempre portata dietro dall’Italia alla California, passando per Israele. Come ho fatto? Con la fascia porta bebè”, ride. “Non ho mai visto nessun altro farlo, credo mi vedessero un po’ particolare, ma non era un problema mio”. Come non dovrebbe esserlo nient’altro, neanche il percorso di studio precedente. “Facevo la ragioneria – racconta Martina Capriotti, biologa marina di 34 anni, originaria di San Benedetto del Tronto – e mi avrebbe dato un lavoro sicuro dopo il diploma, ma facevo immersione e amavo il mare. Così ho voluto unire le mie passioni allo studio e mi sono iscritta in Biologia”. E dopo essersi concentrata sull’inquinamento dei mari e sui suoi effetti ora fa un dottorato in Connecticut.
Le loro storie sono diverse, qualcuna ha anche avuto la fortuna di non sperimentare mai il pregiudizio, ma tutte concordano su un punto: nella scienza c’è spazio per le donne, basta prenderselo. “Bisogna essere consapevoli che si possono incontrare delle difficoltà. Ma se c’è la passione e la tenacia di affrontarle, la soddisfazione sarà immensa”, commenta D’Ambrogi. “Tutto il resto – conclude Giacomin – è rumore di fondo”.