Se c’erano dubbi sulla reale intenzione di Ursula von Der Leyen di proseguire sulla strada del Green Deal, la candidatura della ministra spagnola Teresa Ribera Rodriguez a vicepresidente esecutiva della Commissione, responsabile per la transizione giusta, pulita e competitiva, sembra fugare ogni dubbio. Anche al netto della nuova formulazione: il suo predecessore, l’olandese Frans Timmermans, era assai più esplicitamente “commissario al Clima e al Green Deal Europeo”. Ma se la denominazione dell’incarico può essere frutto di trattative volte a tranquillizzare chi ritiene le politiche ambientali europea “pericolose” per la tenuta delle industrie del vecchio continente, la biografia della Ribera la colloca in una posizione ancora più dura rispetto a Timmermans.
La ministra dell’Ambiente spagnola si prese letteralmente la scena internazionale, rubandola al malcapitato Wopke Hoekstra (subentrato a Timmermans che nel frattempo si era candidato alle politiche olandesi) lo scorso dicembre alla Cop29 di Dubai. Ribera rappresentava l’Unione in virtù del semestre europeo in quei mesi a guida spagnola. E fu la protagonista di un braccio di ferro con Abdulaziz bin Salman, il “signore del petrolio”, ministro dell’Energia dell’Arabia Saudita, figlio del re Salman, nonché fratellastro del principe ereditario Mohammed bin Salman. Da una parte la paladina dell’uscita dai combustibili fossili, dall’altra i leader indiscusso dell’Opec. Nelle concitate fasi finali della Conferenza sul clima di Dubai, fu lei a lapidare come “disgustosa” la lettera con cui l’Opec aveva cercato di serrare i ranghi dei Paesi produttori di petrolio. Ed fu lei a sedere alla destra del segretario generale Onu Guterres, nell’incontro avviava l’ultima giornata di trattative di Cop28.
L’obiettivo della Ribera era anche ritagliare per l’Europa un ruolo non marginale nella diplomazia climatica. Anche se poi, a onor del vero, l’accordo finale di Cop28 con la prima citazione esplicita di addio a carbone, petrolio e gas (pur nella ambigua formula “transition away”), va ascritto al potere di convincimento che esercitarono Usa e Cina, più che l’Europa, sui Paesi produttori di combustibili fossili. Teresa Ribera Rodriguez ha una formazione giuridica, seguita da una carriera da alta funzionaria nella pubblica amministrazione spagnola, e diversi incarichi presso le Nazioni Unite nel campo dello sviluppo sostenibile e dei cambiamenti climatici.
Nel 2018 il premier spagnolo Pedro Sanchez la sceglie per il ministero della Transizione ecologica. Due anni dopo diventa anche uno dei quatto vice del primo ministro. Nel suo tentativo di rendere green la Spagna, dichiara guerra al carbone, chiude le miniere nel nord del Paese e stanzia 250 milioni di euro per sostenere i lavoratori del comparto costretti alla riconversione. Nel luglio scorso si presenta in bici a una conferenza sul clima a Valladolid, ma pochi metri dietro di lei ci sono le due auto della scorta. Il fatto che fossero elettriche non le risparmia critiche e ironie.
Ora, se il Parlamento europeo le voterà la fiducia, dovrà completare la transizione ecologica, “gemella” di quella digitale, come ha detto Von Der Leyen nella presentazione della sua squadra. E dovrà affrontare il suo primo ostacolo proprio sulle auto elettriche, con Paesi, l’Italia prima tra tutti, che chiedono alla Ue di fare dietrofront sullo stop ai motori a combustione a partire dal 2035. Difficile che Ribera possa cedere su questo punto. E allora sarà curioso vedere se, non solo i partiti della maggioranza europea come Verdi e Socialisti voteranno la fiducia al candidato vicepresidente esecutivo Raffaele Fitto, ma anche se i rappresentanti di Fratelli d’Italia e Forza Italia, diranno sì a Teresa Ribera.