Una birra con gli amici, un invitante piatto di frutti di mare o, semplicemente, un bel respiro profondo. È probabile che, così facendo, nel vostro organismo finisca una quantità di plastica equivalente a una carta di credito alla settimana. Oltre due chili in dieci anni. Più che di plastica, si tratta di microplastica, termine usato per la prima volta nel 2004 dal biologo inglese Richard C. Thompson per indicare particelle di forma differente, come frammenti, filamenti, fibre, sfere, granuli, pellet, di dimensioni variabili da 0,1 micrometri (il micrometro è la millesima parte del millimetro) a 5 millimetri. Loro “cugine” sono le nanoplastiche, ancora più minuscole, che misurano da 0,001 a 0,1 micrometri, tanto quanto un virus o un filamento di Dna. Un’emergenza invisibile, ma non per questo meno preoccupante. Basti pensare che in Europa, secondo l’Agenzia europea per le sostanze chimiche (European Chemicals Agency, Echa), il rilascio di microplastiche nell’ambiente sfiora le 42mila tonnellate all’anno.

Cattive acque

Un problema che ha fatto capolino già negli anni Settanta del secolo scorso, quando i primi studi hanno segnalato la presenza di microplastiche negli oceani e nei mari del mondo. Oggi si calcola che qui la concentrazione è pari a circa 102mila particelle per metro cubo, con valori più elevati nelle zone vicine ai siti di smaltimento dei rifiuti, agli impianti di trattamento delle acque, ai porti. Secondo una recente analisi, il peso delle particelle galleggianti in ambienti marini ammonterebbe a oltre due milioni di tonnellate in totale.

Situazione analoga nel nostro Paese. Sui fondali del Mar Tirreno, in corrispondenza della foce del Tevere, i ricercatori dell’Università Tor Vergata di Roma hanno raccolto campioni di acqua a diverse distanze dalla costa e a differenti profondità (tra i cinque e i 30 metri). In ognuno è stata rilevata la presenza di polistirene, con una media di 45 microgrammi per litro e picchi di 60. Secondo alcune stime, pare che tra il 2006 e il 2016 oltre 8mila tonnellate di microplastiche siano finite nel Mar Mediterraneo.

© 2019 KONTROLAB
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La criticità sussiste anche per le acque dolci. Uno studio comparso su Nature nel 2023 riferisce che un team internazionale di esperti ha mappato le microplastiche in 38 laghi dell’emisfero settentrionale e dell’Australia, rilevando un’elevata concentrazione di particelle, oltre cinque per metro cubo. I bacini più inquinati sono risultati il lago Maggiore, in Italia; il lago di Lugano, in Svizzera; il lago Tahoe, negli Stati Uniti.

Microplastica, anche il glitter inquina: da Cambridge l’alternativa biodegradabile


Nella nostra penisola, nel 2016, Legambiente e l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) avevano già condotto rilevazioni in cinque laghi (Iseo, Maggiore, Garda, Bolsena, Albano), con risultati tutt’altro che confortanti. Maglia nera per Iseo e Maggiore, rispettivamente con una densità media di 40.396 e 39.368 microplastiche per chilometro quadrato di superficie. Seguono Bolsena e Garda, con valori di 26.829 e 25.259 rispettivamente. Meglio il lago Albano, con una media di 3.892. Per quanto riguarda la forma delle particelle, si tratta nel 70% dei casi di frammenti e nel 6,8% di filamenti.

Non se la passano meglio i fiumi. Una ricerca condotta da Greenpeace su 13 corsi d’acqua del Regno Unito ha evidenziato che tutti contenevano microplastiche. Il fiume più contaminato è risultato il Mersey, che sfocia nella baia di Liverpool: i ricercatori hanno estratto ben 875 pezzi di plastica in mezz’ora.

Dalle vette alle nuvole

Le microplastiche pullulano nei fondali, ma anche nell’atmosfera, soprattutto nelle grandi città, come Londra, Pechino, Nuova Delhi. Un problema di inquinamento, evidentemente, ma non solo. Alcuni esperti sostengono, infatti, che le particelle disperse nell’aria possano contribuire ai cambiamenti climatici, influenzando le temperature del pianeta. Ipotesi concrete, che dovranno, tuttavia, essere confermate da ulteriori studi.

Nel frattempo, sospinte dai venti, le microplastiche sono arrivate in alta quota, raggiungendo perfino l’Everest. Un fenomeno che interessa anche i più importanti ghiacciai italiani, come dimostra un monitoraggio effettuato nel 2024 da Greenpeace, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e l’Università del Piemonte Orientale, che ha rilevato microplastiche nell’80% dei campioni prelevati sul ghiacciaio dei Forni e nel 60% di quelli raccolti sul ghiacciaio del Miage. Il polimero prevalente è risultato il cellophane (55%), seguito da polietilene-polipropilene (35%) e dal nylon (10%). In precedenza, nel 2022, un’altra analisi, condotta nell’ambito del progetto CleanAlps, realizzato dall’European Research Institute con il supporto del Politecnico di Torino, aveva individuato 19 frammenti in 21 campioni di neve da circa un litro ciascuno, raccolti tra dicembre 2020 e aprile 2021 in cinque aree nelle Alpi occidentali. Insomma, la neve candida e pura non esiste più.

Del resto, non sono immuni da microplastiche neppure le zone più remote del pianeta, considerate fino a poco tempo fa incontaminate, ovvero l’Artico (Polo Nord) e l’Antartide (Polo Sud). Secondo uno studio pubblicato nel 2019 su Science Advances e realizzato da ricercatori svizzeri e tedeschi, nel ghiaccio artico sono state rivenute circa 14.400 particelle per litro, mentre un altro gruppo di studiosi ha trovato fino a 100mila particelle per metro quadrato nei sedimenti superficiali antartici.

Microplastiche sono state rintracciate addirittura nelle nuvole, sopra la Cina: i ricercatori hanno scovato particelle di diversa forma, colore, tipo, dimensioni, in una concentrazione di oltre 400 per litro.

Tartarughe appena nate fanno lo slalom tra le microplastiche per raggiungere il mare


Una minaccia per la biodiversità

Si calcola che a oggi 1.557 specie marine e terrestri nel mondo abbiano ingerito microplastiche, con un pericolo per la biodiversità. Nelle acque, pesci, crostacei, cetacei ingoiano frequentemente le dannose particelle, scambiandole per cibo. Ciò può causare malnutrizione e spesso anche la morte, in seguito a un blocco dell’apparato digerente. Come dimostrano, per esempio, alcune ricerche pubblicate su Environmental Pollution e sul Journal of Fish Biology, le trote esposte alle microplastiche possono subire vari effetti negativi, tra cui riduzione della crescita, cambiamenti nel comportamento alimentare, tossicità a livello cellulare. Su Marine Pollution Bulletin viene, invece, raccontato che i merluzzi esposti ai frammenti plastici possono andare incontro a lesioni del tratto gastrointestinale, infiammazioni, indebolimento del sistema immunitario, riduzione della fertilità.

Pure gli uccelli, soprattutto quelli marini, sono noti per ingerire microplastica: il materiale, spesso trovato nei loro stomaci, viene portato anche nei nidi, come nutrimento per i piccoli, con conseguenti danni alla loro salute e al loro sviluppo.

Molto esposti a queste particelle anche gli animali che vivono ai Poli, come orsi polari, foche, pinguini, visto che l’ambiente freddo può, tra l’altro, influenzare la degradazione delle microplastiche, rendendole più persistenti.

L’allarme è scattato pure per le barriere coralline, già sotto stress a causa di riscaldamento globale, acidificazione degli oceani, inquinamento. Le microplastiche possono, infatti, aderire ai coralli, bloccando la luce solare e di conseguenza la fotosintesi. Senza contare che il contatto può provocare abrasioni meccaniche sui tessuti corallini, esponendoli a patogeni e aumentando il rischio di infezioni.

Danni per cuore e ossa

Anche noi esseri umani, al pari delle altre specie, introiettiamo microplastiche. Soprattutto respirando, ma anche mettendoci a tavola. In proposito, un documento dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (European food safety authority, Efsa) riporta l’elenco degli alimenti e delle bevande più a rischio di contaminazione. Tra questi, pesci (la concentrazione varia da 1 a 7 microplastiche per esemplare), gamberi (0,75 per grammo), cozze (tra 0,2 e 4 per grammo), sale (tra 0,007 e 0,68 per grammo), birra (da 0,017 a 0,033 per millilitro). E ancora, zucchero, miele, acqua.

Una volta finite nel nostro organismo, le particelle possono attraversare, a causa delle loro ridotte dimensioni, le barriere che proteggono organi e apparati, raggiungendo per esempio intestino, reni, fegato, polmoni, cervello. Nel 2023 i ricercatori dell’American Chemical Society ne hanno trovato traccia nel cuore e nel sangue, mentre un ampio studio italiano coordinato dagli scienziati dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli e pubblicato nel marzo 2024 su The New England Journal of Medicine ne ha dimostrato la presenza nelle placche aterosclerotiche delle arterie, con un maggiore rischio di infarto o ictus.

E ancora, le nanoplastiche nuocciono alle ossa, essendo probabilmente implicate nello sviluppo di malattie tipo l’osteoporosi, come suggerisce una ricerca comparsa nel gennaio 2024 sulle pagine del Journal of Hazardous Materials e realizzata dagli esperti dell’Università degli Studi di Milano.

Rischi per l’apparato riproduttivo

Un recente studio, pubblicato nel febbraio 2024 su Toxicological Sciences e portato avanti da esperti dell’Università del New Mexico, negli Stati Uniti, ha intercettato le microplastiche perfino nella placenta. I ricercatori hanno analizzato 62 campioni tessutali, rilevando in tutti tracce di polietilene, polivinilcloruro (pvc), nylon, in quantità variabili da 6,5 a 790 microgrammi per grammo di tessuto. “La concentrazione è preoccupante, visto che la placenta inizia a formarsi circa un mese dopo l’inizio della gravidanza e cresce, quindi, per soli otto mesi”, ha commentato il professor Matthew Campen, coordinatore della ricerca. “In altri organi l’accumulo avviene per periodi di tempo molto più lunghi, con una concentrazione, e perciò dei danni, presumibilmente maggiore”. Questa analisi statunitense avvalora i risultati di un precedente studio, pubblicato nel 2020 su Environment International e condotto dai ricercatori dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e dell’Università Politecnica delle Marche, che avevano monitorato sei placente, visualizzando particelle in quattro di esse.

Tappi di plastica attaccati alle bottiglie, perché non è un problema ma una soluzione

Un recentissimo studio, reso noto nell’aprile 2024 e portato a termine da un gruppo di ricercatori italiani, ha rilevato la presenza di microplastiche anche nelle ovaie di donne che si sottopongono alla procreazione medicalmente assistita. “Questa ricerca completa un lavoro iniziato un paio di anni fa con la pubblicazione di altri due studi, di cui uno aveva evidenziato microplastiche negli spermatozoi, l’altro nelle urine”, precisa Luigi Montano, andrologo dell’Asl di Salerno, past president della Società italiana della riproduzione umana (Siru) e coordinatore del lavoro.

È stato, infine, dimostrato che le particelle possono provocare danni al sistema ormonale, con problemi riproduttivi e di metabolismo, a causa della presenza di contaminanti, come ftalati, bisfenolo A, ritardanti di fiamma bromurati, idrocarburi policiclici aromatici, policlorobifenili, noti per essere interferenti endocrini.

Catalizzatori per i batteri

Secondo uno studio riportato nel 2022 sulla rivista Chemosphere e condotto dai ricercatori dell’Università di Tel Aviv, in Israele, le microplastiche sarebbero dannose non solo di per sé, ma anche perché costituiscono dei catalizzatori per vari inquinanti, comportandosi, in pratica, come dei magneti. Gli studiosi hanno, in particolare, testato l’effetto di alcuni composti nocivi, come triclosan e polistirene, quando vengono inglobati e poi rilasciati dalle microplastiche. Ebbene, il loro assorbimento, da parte delle cellule del nostro organismo, può crescere fino a tre volte, la tossicità fino a dieci volte.

Infine, le microplastiche, come una sorta di traghetto, possono trasportare batteri attaccati alla loro superficie, come Escherichia coli, Bacillus cereus, Stenotrophomonas maltophilia. Una ricerca pubblicata nel 2022 su Plos One ha rivelato la presenza in media di oltre 2.600 cellule batteriche appartenenti a 195 specie di germi su ogni microplastica esaminata. Tra queste, anche Vibrio parahaemolyticus, un microrganismo responsabile di intossicazioni alimentari.

Il bucato a mano rilascia molte meno microplastiche della lavatrice

Le fonti tra tessuti sintetici e rifiuti di plastica

Ma da dove provengono tutte queste microplastiche? Anzitutto da cosmetici (make up, detergenti, dentifrici, glitter), paste abrasive, fertilizzanti, vernici, in cui le particelle vengono aggiunte intenzionalmente dai fabbricanti per conferire ai prodotti specifiche caratteristiche (microplastiche primarie). Poi dai vari oggetti in plastica, come shopper per la spesa, pneumatici, bottiglie, che usurandosi e deteriorandosi emettono particelle (microplastiche secondarie). In questo secondo gruppo rientrano senza dubbio i tessuti. Soprattutto sintetici, come le felpe di pile, i calzoncini di nylon per la palestra, gli abitini in poliestere, che rilasciano minuscoli filamenti, chiamati microfibre, durante la fabbricazione, l’uso, lo smaltimento, ma soprattutto durante il lavaggio. Secondo uno studio del 2019 pubblicato su Nature, si tratta di 1,5 milioni di microfibre per chilogrammo di tessuto lavato, il che significa 200mila-500mila tonnellate di particelle disperse ogni anno. Una cifra enorme.

Non lascia ben sperare l’indagine Beach litter condotta da Legambiente nel 2023 in 15 regioni italiane, su 38 spiagge, per un totale di 232.800 metri quadrati analizzati: al primo posto tra i rifiuti abbandonati c’è ancora una volta la plastica (72,5%). In tutto sono stati trovati 3.996 pezzi di plastica (tra i 2,5 e i 50 centimetri), con una media di 105 pezzi ogni 100 metri. Tra gli oggetti rinvenuti soprattutto bottiglie di plastica, ma anche tappi, contenitori per alimenti, bicchieri, buste, cannucce.

Il giro di vite della normativa

Di fronte a una situazione sempre più critica, le istituzioni hanno cercato di porre un freno al fenomeno con interventi normativi. Per esempio, la direttiva europea numero 2184 del 16 dicembre 2020, recepita in Italia dal decreto legislativo numero 18 del 23 febbraio 2023, stabilisce l’importanza del monitoraggio delle microplastiche nell’acqua potabile.

Un’altra direttiva europea vieta, dal 15 ottobre 2023, la commercializzazione di glitter sfusi e dei microgranuli contenuti negli esfolianti per la pelle. Prossimamente il divieto verrà esteso ad altri prodotti, che si stanno nel frattempo attrezzando per modificare le proprie preparazioni.

Già nel 2019 la direttiva europea numero 904 sulla plastica monouso mirava a ridurre il single use soprattutto in ambiente acquatico, proibendo la vendita di prodotti usa e getta come posate, piatti, bastoncini cotonati (cotton fioc), agitatori per bevande, aste dei palloncini. Nel gennaio 2022 questa norma è entrata ufficialmente in vigore anche in Italia, anche se con qualche deroga.

Più plastica che conchiglie: così i paguri sfruttano i rifiuti


I comportamenti virtuosi che fanno la differenza

Ma anche tutti noi possiamo fare molto, con le nostre scelte quotidiane, per tenere sotto controllo l’emissione di particelle. Per esempio, preferendo, quando andiamo a fare la spesa, merce sfusa e cosmetici plastic free. Meglio optare per shampoo solidi, bagnoschiuma ricaricabili, deodoranti naturali, dischetti struccanti lavabili, spazzolini da denti di bambù. E prestare attenzione al lavaggio dei tessuti. In proposito, Judith Weis, professore emerito di Scienze biologiche alla Rutgers University, negli Stati Uniti, e autrice di numerosi studi sul tema, oltre che del libro Polluting textiles: the problem with microfibres, fornisce alcuni suggerimenti: “Anzitutto, bisogna attivare la lavatrice a pieno carico perché così gli indumenti saranno esposti a meno attrito durante il lavaggio. Poi occorre utilizzare acqua fredda e detersivo in forma liquida.

Tutorial

Come eliminare plastica (e sprechi) in bagno

di Paola Rosa Adragna

Inoltre, meglio lasciare asciugare i panni su uno stendibiancheria perché la ventola dell’asciugatrice contribuisce a rilasciare ulteriori filamenti. Infine, se si deve acquistare una nuova lavatrice, è consigliabile optare per un modello a caricamento frontale, la cui centrifugazione limita l’emissione di particelle tessili”.

Ci sono poi alcuni prodotti che raccolgono le microfibre prima che vengano rilasciate nelle acque reflue. Tra questi, le washing bag, sacchetti realizzati con un singolo filamento di poliammide intrecciato nei quali racchiudere il bucato da lavare: la rete intrappolerà i frammenti rilasciati dai capi impedendone la dispersione. Un altro dispositivo sono le sfere in plastica riciclata, come Cora Ball, da posizionare nel cestello dell’elettrodomestico prima di avviare il lavaggio. Un modo più efficace per limitare le microfibre sono i filtri: quelli esterni, che si adattano alle lavatrici esistenti, oppure quelli incorporati, caratteristici dei nuovi modelli.

E in cucina? È bene abbandonare taglieri e contenitori in plastica, ma anche le padelle antiaderenti rivestite in teflon, preferendo quelle in acciaio inossidabile o in ghisa. Attenzione a prevenire la contaminazione dei cibi, riducendo al minimo gli imballaggi in plastica e preferendo alternative in vetro, silicone, carta.

Infine, occorre sempre vigilare sul corretto smaltimento dei rifiuti, separando la plastica e gettandola negli appositi bidoni. “In un’epoca in cui la coscienza ambientale e l’One health sono al centro del dibattito, le microplastiche restano un problema ancora molto sottovalutato, anche se profondamente impattante”, sostiene Giorgio Sesti, professore ordinario di Medicina interna all’Università Sapienza di Roma e presidente della Società italiana di medicina interna (Simi). “Ora sta a noi attuare le buone prassi virtuose dal punto di vista ecologico, che facciano guadagnare salute a chi vive oggi e a chi vivrà domani”.