Mentre il ventesimo secolo moriva, un padre nobile della sinistra italiana quasi novantenne, Vittorio Foa, si rifiutava di offrire ai giovani un’eredità fatta di disincanto. La fine delle ideologie — spiegava — ha aperto spazi che erano impensabili. «Anche se orfani, non siamo privi di bussola». Senza ipoteche marxiste o clericali, «c’è un’occasione straordinaria, unica, per darsi da fare». E aggiungeva che i valori «non sono collocati in un posto fisso come una cassetta di sicurezza, i valori bisogna cercarli ed è una fatica».
La politica voti per il clima
di Luca Fraioli
Dopo l’appello della comunità scientifica alle forze politiche perché i temi ambientali entrino nei programmi elettorali con nettezza, in due giorni oltre ventottomila persone hanno sottoscritto la petizione lanciata da Green&Blue. Non è incongruo pensare che una ridefinizione dei valori sia già in atto. Valori, appunto, intesi come priorità esistenziali, parametri etici, che cercano risposta nella politica. È lì che l’attivismo anche auto-organizzato incontra le responsabilità della rappresentanza politica democratica; è lì — in quello spazio di intenti comuni — che due forme di “militanza” si riconoscono e strategicamente si alleano. Non è un dettaglio il fatto che anche Fridays For Future Italia abbia aderito alla petizione: anzi, è forse la conferma di come sia approssimativa, se non scorretta, e ingenerosa la visione di una generazione «lontana dalla politica» e dalla partecipazione. Non è qualunquista la necessità di cogliere, in un programma politico, non già, o almeno non soltanto, l’etichetta di “destra” o “sinistra”, ma la risposta a nuove domande. Molto precise e molto concrete.
Diversi leader politici italiani sotto i cinquant’anni non sembrano così preoccupati dalla questione del cambiamento climatico. Forse anche perché sanno che larga parte dell’elettorato over 50 vive con altrettanto disinteresse e ironico distacco l’attivismo dei giovanissimi sul tema. Ma dove qualcuno vede eccessivo allarmismo, e con un’alzata di spalle (l’eterno «che sarà mai!») liquida come catastrofisti e apocalittici scienziati e cittadini impegnati (la «religione del caldo afoso», l’ha battezzata un irridente e ottimista Giuliano Ferrara), c’è una solida sequenza di dati. Non l’evidenza, oggettivamente poco scientifica, di una singola estate più torrida.
Il Climate plan di Copenaghen, che promette a sé stessa di diventare entro qualche anno la prima città al mondo a emissioni zero, è una sciocchezza? Rammentare il fatto che un abitante dell’Africa subsahariana produce in media una tonnellata di CO2 l’anno; chi vive in Europa ne produce più di sei e chi vive negli Stati Uniti sedici e mezzo, è liquidabile come una curiosità folkloristica? Accomodarsi nella certezza che il peggio non ci riguarderà direttamente è legittimo e comprensibile almeno quanto è cinico; e d’altra parte nessuna cultura umana ha mai immaginato la sua fine come un processo lento e graduale. Per questo l’apocalisse “a rate” fa meno paura di quella che arriva di colpo. Accendi il condizionatore, e passa l’angoscia. Ma la politica, se è davvero tale, non può essere tanto gretta: e dopo avere sventolato per anni, come uno straccio ingannevole, la bandiera del futuro, potrebbe/dovrebbe impugnare quella del presente. Non dovremmo cominciare a leggere le reiterate catastrofi meteorologiche anche come manifestazioni di una crisi politica? Se lo chiede una popolarissima scrittrice irlandese, Sally Rooney, poco più che trentenne. In un romanzo che esplora la «luce sinistra» in cui vive la nostra civiltà; e che, non a caso, ha per titolo una domanda: «Dove sei, mondo bello?».