Nel golfo di Trieste c’è una piccola nursery con tanti piccoli che aspettano di trovare una nuova casa. Sono piccole (giovani) nacchere di mare (Pinna nobilis), una delle specie più carismatiche del Mediterraneo. Almeno lo era una volta, prima che una epidemia le cui cause sono note solo in parte, spazzasse via gran parte degli esemplari che popolavano i nostri mari. Quella nursery è oggi la speranza di riportare in vita una specie ormai sull’orlo dell’estinzione, all’interno del progetto Life Pinna, iniziativa finanziata dall’Unione Europea partita da appena qualche mese.
“La Pinna nobilis ha subito un declino incredibile nel corso degli anni – riassume Daniela Caracciolo di Arpal (Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente della Liguria), responsabile del progetto – se in passato infatti era piuttosto comune, è stata usata fin dall’antichità per realizzare sete preziose a partire dai filamenti del suo bisso, ma anche per alimentazione e collezionismo, oggi è ormai classificata come specie gravemente minacciata secondo lo Iucn (Unione Internazionale della Conservazione della Natura)”.
L’epidemia che ha decimato le nacchere di mare
Già negli anni Novanta, ricorda Caracciolo, per il più grande mollusco bivalve del Mediterraneo – può arrivare a misurare anche il metro di lunghezza, infatti – erano stati avviati progetti di tutela, che ne avevano vietato la commerciabilità e gli spostamenti per nessuna ragione. E qualcosa avevano prodotto quei primi interventi: la nacchera di mare cominciò a rifiorire, fino a quando nel 2016, d’improvviso, si è cominciato a osservare un declino pazzesco, come lo definisce senza giri di parole Caracciolo: “A partire dalla Spagna e poi attraverso tutto il Mediterraneo abbiamo osservato la scomparsa del 90% delle nacchere di mare, per cause che conosciamo solo in parte e che stiamo ancora studiando. Da una parte sappiamo che questa epidemia è stata in parte causata dal protozoo Haplosporidium che attacca l’intestino, ma è verosimile che siano coinvolte anche altre infezioni da parte di batteri e virus”. Questo insieme alle attività di pesca con reti a strascico, all’inquinamento, e all’innalzamento delle temperature ha creato la tempesta perfetta per la Pinna nobilis, scatenando un tracollo che nel giro di cinque anni si stima abbia portato alla perdita di 300mila esemplari, va avanti Caracciolo. Il progetto Life Pinna è nato proprio per cercare di invertire questa tendenza.
“L’obiettivo è ripristinare le popolazioni del mollusco attraverso modalità diverse: da una parte si mira a individuare le popolazioni più resistenti che hanno superato l’epidemia, al loro prelievo, allevamento in condizione controllate e poi impianto in nuove aree, dall’altra l’ambizione è quella di riuscire a far riprodurre in cattività la specie, magari quelli più resistenti appunto”, spiega la responsabile del progetto. Studi genetici aiuteranno a comprendere perché alcuni esemplari sono morti e altri no: “Sappiamo che il nostro è un progetto ad alto rischio, all’ultima Pinna si potrebbe dire, ma vale la pena rischiare”.
E a rischiare gli attori del progetto hanno già cominciato. Quella trentina di esemplari custoditi nel Golfo di Trieste ne sono l’esempio. Si tratta di individui giovani, raccolti da siti considerati a rischio, spiega Saul Ciriaco di Shoreline, partner del progetto: “Questi individui provengono da mitilicolture e porticcioli, dove sono sono state identificate anche alla collaborazione dei club subacquei”. Se rimanessero lì avrebbero poche possibilità di sopravvivere. È per questo che, tramite protocolli dedicati per il prelievo e trasporto, vengono prese e poi messe a crescere in stabulari, in attesa di diventare abbastanza grandi per essere trasferiti. Dove dipende da una serie di fattori. “Nel mentre sono in corso le analisi sui siti che potranno ospitare gli esemplari – riprende Ciriaco – e che devono soddisfare una serie di requisiti, vola a garantire l’assenza di rischio sanitario, meccanico e di turismo. In particolare devono essere aree marine protette, aver avuto o avere ancora esemplari di Pinna, ed essere prive di patogeni”.
Le aree marine protette scelte per il ripopolamento sono quelle di Capo Mortola, Asinara, Miramare e Strunjan, in Slovenia. “Qualche esemplare di Pinna che si sta riproducendo c’è ancora, è vero. Quello che con le attività di ripopolamento ci proponiamo di fare – sempre rispettando le densità documentate degli esemplari del bivalve – è di creare delle zone ad alta concentrazione, così da favorire la riproduzione. La Pinna nobilis infatti è un animale ermafrodita, ma rilascia guizzi di gameti maschile e femminili in tempi diversi. Creare le condizioni per far incontrare questi gameti, concentrando gli individui, dovrebbe aiutare la riproduzione”.
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Accanto a questa attività di trasferimento di molluschi giovani, il progetto conta anche di catturare delle larve dell’animale in mare tramite l’uso di alcuni collettori. La prima raccolta è prevista a ottobre, dopo la stagione riproduttiva. Ma la vera ambizione del progetto è quella di riuscire a riprodurre in cattività la Pinna nobilis: “Questo ci consentirebbe di eliminare la stagionalità del ciclo riproduttivo. Ma dovremmo prima capire se è possibile prendere degli adulti, allevarli in vasca, indurre l’emissione di gameti, raccoglierli e fecondarli”, conclude Ciriaco.
Il progetto Life Pinna avrà durata di quattro anni e vede la partecipazione di Arpal, il Parco nazionale dell’Asinara, il Nib – Istituto Nazionale di Biologia Sloveno, la Società Cooperativa Shoreline, l’Università degli Studi di Genova, l’Università degli Studi di Sassari e la società Triton Research.