Potrebbe esserci un modo particolarmente efficace per ostacolare l’incontrollata diffusione del granchio reale blu (Callinectes sapidus), originario dell’Atlantico, nei mari italiani e nel Mediterraneo in genere: mangiarlo. Perché se le specie aliene o alloctone, come vengono chiamati gli organismi che l’uomo trasporta al di fuori del loro areale naturale, sono oggi una delle più gravi minacce per la biodiversità a scala mondiale inizia a farsi largo tra i ricercatori l’idea il loro controllo possa passare attraverso la pesca e il consumo diffuso, qualora – come nel caso del crostaceo – le carni siano evidentemente commestibili.
La pesca e la valorizzazione di “nuovi prodotti” che risultano essere sempre più abbondanti nei nostri mercati è applicabile anche nel caso della “meridionalizzazione”, come strumento per giungere a una maggiore sostenibilità ambientale. È una delle conclusioni a cui giunge uno studio delle università di Catania e Camerino, pubblicato in un articolo sul Journal of Marine Science and Engineering con il titolo “Meridionalization as a Possible Resource for Fisheries: The Case Study of Caranx rhonchus in Southern Italian Waters“.
Il caso di studio riguarda, infatti, il carango ronco (Caranx rhonchus), morfologicamente simile ai “sauri” o ai “sugarelli” (genere Trachurus): non si tratta, a dire il vero, di una specie aliena, ma di una specie nativa che ha ampliato il suo areale di diffusione in conseguenza al riscaldamento delle acque del Mediterraneo, la cosiddetta meridionalizzazione.
Un fenomeno che favorisce l’espansione verso nord di specie autoctone termofile, proprio come il carango ronco, su cui si è incentrato lo studio di Alberto Felici, Salvatore Coco e Alessandra Roncarati (Università di Camerino) e di Francesco Tiralongo (Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Catania e Laboratorio di Biologia della Fauna Marina Mediterranea). Con quali risultati? Il pesce, che da tempo si vede con maggior frequenza nelle reti dei pescatori e sui banconi degli esercizi commerciali, ha ottime proprietà nutrizionali e bassi livelli dei contaminanti rispetto a quelli di altre specie comunemente consumate. Insomma, un via libera al suo consumo trattandosi di un prodotto assolutamente sicuro, ancorché non ancora privilegiato nelle scelte dei consumatori finali.
“E invece bisognerebbe guidare il consumatore verso un maggiore consumo di questa specie – spiegano i ricercatori – certamente più sostenibile e sana rispetto a tante altre commercialmente note, con un beneficio sia per l’ambiente che per la nostra salute”.
Ma il tema si estende anche agli scenari futuribili che, si legge nello studio, “vedranno lo spostamento di gamma di nuove specie un fenomeno sempre più comune nel Mar Mediterraneo, con un numero crescente di specie non autoctone che entrano attraverso il Canale di Suez e di specie termofile che entrano attraverso lo Stretto di Gibilterra o espandono la loro distribuzione dal Mar Mediterraneo meridionale”.
Con modifiche profonde alle dinamiche di pesca e fluttuazioni significative nella disponibilità di specie, motivo per il quale – concludono gli autori dello studio – “è necessario capire in che modo il range di spostamento può avvantaggiare la dimensione umana e quali specie invasive non autoctone e autoctone possono essere sfruttate commercialmente, favorendo una corretta gestione della pesca e guidando i consumatori verso scelte più informate e responsabili“.
Ma la strada appare senz’altro complicata. Anzitutto perché il consumatore medio italiano è legato alla tradizione del pescato e fatica ad allontanarsene, anche qualora – per esempio con la valorizzazione del cosiddetto ‘pesce poverò – avrebbe indiscussi vantaggi economici.
“In paesi come Cipro – spiega Francesco Tiralongo – il 23% dei ristoranti usa quotidianamente specie aliene per la realizzazione del proprio menu. Può farlo con specie sicure, sulle quali stiamo portando avanti specifiche analisi nutrizionali, contribuendo indirettamente al controllo della popolazione visto che eradicare le specie aliene – soprattutto negli ecosistemi marini – è di fatto impossibile. Un esempio è proprio il granchio blu reale (Callinectes sapidus) talmente ricercato nell’Atlantico occidentale – dove è specie nativa – da indurre a un suo ripopolamento. Presente in tutte le coste d’Italia, rischia qui una diffusione incontrollata: nei mercati della Sicilia inizia a trovarsi e c’è chi apprezza, eccome“.
E c’è anche il caso del Penaeus aztecus, un gamberone originario dell’Atlantico e arrivato nel Mediterraneo molto probabilmente attraverso le acque di zavorra: in alcune zone d’Italia ha soppiantato le mazzancolle.
“E nel golfo di Taranto lo si trova regolarmente in vendita nei mercati del pesce“, annota Tiralongo.
Ma siamo sicuri che il via libera al consumo di specie aliene possa realmente servire a contrastarne la diffusione? “Bisogna avere una certa cautela, analizzando caso per caso. – spiega Piero Genovesi, responsabile per la fauna dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale Ispra, tra i massimi esperti mondiali di specie invasive e di biodiversità – Il vero rischio è che l’appetibilità sul mercato di una specie generi un nuovo interesse economico e si finisca con il perdere di vista il nobile intento di controllarla, o eradicarla, assecondandone la nuova richiesta”.
E in molti citano il caso emblematico del gambero rosso della Louisiana (Procambarus clarkii), importato in Italia proprio a scopo alimentare, che ha finito con il colonizzare le acque di fiume del Paese, con effetti nocivi sulla biodiversità.
Per tacere delle specie non commestibili, o – peggio ancora – nocive. Una su tutte: il pesce palla maculato (Lagocephalus sceleratus), sul quale Ispra e Guardia Costiera hanno promosso una campagna di sensibilizzazione.
“A noi è capitato di scongiurare in extremis il suo consumo da parte di un pescatore, ingolosito dalla consistenza delle sue carni, simili a quelle della rana pescatrice”, racconta Tiralongo. In quel caso per il controllo della popolazione bisognerà studiare strade alternative.