Sono ovunque: sull’Everest e nella neve artica, nella placenta e, naturalmente, nei nostri mari, in quantità stimate in quasi due milioni di tonnellate all’anno. Ora, però, per la prima volta le microplastiche compaiono nel respiro dei delfini, che finiscono fatalmente con inalarle quando salgono in superficie. Con conseguenze potenzialmente nocive sulla loro salute. È quanto certificato da uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Plos One. I delfini non sono gli unici animali a “respirare” microplastiche.
Ricerche precedenti, in Giappone, ha certificato la presenza di microplastiche nei polmoni degli uccelli selvatici. Ma sono proprio i cetacei, che popolano i mari di tutto il mondo, a toccare anche le aree costiere più trafficate: per questo sono considerati dai ricercatori un potenziale indicatore importante sull’inquinamento da plastica.
Nello studio in questione, Leslie B. Hart, co-direttrice del Center for Coastal Environmental and Human Health presso il College of Charleston, nella Carolina del Sud, ha raccolto – insieme alla biochimica Miranda K. Dziobak, campioni di aria espirata da undici tursiopi nella baia di Sarasota, in Florida, e nella baia di Barataria, in Louisiana. Per farlo hanno posizionato una capsula di Petri, piccolo recipiente di forma cilindrica, sullo sfiatatoio di ciascun esemplare, durante la fase dell’espirazione. Alla ricerca ha collaborato il Brookfield Zoodi Chicago, che conduce da anni studi sulla salute dei delfini, in particolare quelli catturati e poi rilasciati.
La ricerca ha preso le mosse da alcune evidenze emerse in studi precedenti, che avevano rivelato – nei delfini della baia di Sarasota – la presenza di ftalati, sostanze chimiche utilizzate nella plastica, interferenti endocrini dagli effetti nocivi per la salute umana. Una presenza attestata su livelli sensibilmente superiori a quelli riscontrati negli esseri umani. Forse, naturalmente, il sospetto che si trattasse degli effetti del marine litter, l’inquinamento da plastica.
I delfini più esposti dell’uomo
E il campionamento ha confermato in pieno l’ipotesi: l’analisi da laboratorio ha infatti rilevato particelle di microplastica nel respiro di tutti i delfini testati, con presenza di più tipi di polimeri plastici, tra i quali il polietilene tereftalato (PET) e il poliestere, uno dei polimeri più comuni utilizzati nel campo dell’abbigliamento. “E in effetti per ogni bucato i nostri vestiti rilasciano milioni di minuscole fibre di plastica, in grado di viaggiare facilmente nell’acqua e nell’aria”, spiega Dziobak. Fatale che gli animali, come l’uomo, vi siano esposti: “Proprio così. – annuisce Hart – E i delfini, secondo la nostra ipotesi, li respirano in superficie, mentre vengono disperse dalle onde”.
Di più: “l’apnea prolungata dei tursiopi li renderebbe più esposti dell’uomo, in virtù della grande capacità polmonare, all’assunzione involontaria delle microplastiche condotte dall’aria”, annota ancora Hart.
Quanto alle conseguenze, le microplastiche sarebbero collegate a potenziali infiammazioni e danni a livello cellulare. E, soprattutto, veicolerebbero sostanze chimiche a loro volta direttamente nocive. Ma – spiegano i ricercatori – sono necessari ulteriori studi per comprendere meglio l’entità delle microplastiche inalate, nonché per esplorarne con maggiore precisione gli impatti, dati i potenziali rischi per la funzionalità polmonare e la salute.Non mancano, nel recente passato, studi sull’inalazione di microplastiche da parte dell’uomo. Che potrebbe respirare circa16,2 frammenti all’ora, l’equivalente di una carta di credito in una settimana, secondo studio condotto dai ricercatori della University of Technology Sydney, della Western Sydney University, della Urmia University, della Islamic Azad University, della University of Comilla e della Queensland University of Technology, pubblicato sulla rivista Physics of Fluids.
La sfida è comprendere con quali conseguenze, a breve e lungo termine, si muovano nel sistema respiratorio, degli esseri umani come degli animali, delfini compresi. La plastica come vettore di agenti nocivi“Il problema della diffusione delle microplastiche, e in generale delle plastiche, è – con i cambiamenti climatici e la distruzione diretta degli habitat, una delle tre grandi questioni che minacciano la biodiversità. – spiega Antonio Terlizzi, che da direttore del Dipartimento di Ecologia Marina Integrata della Stazione zoologica Anton Dohrn si occupa quotidianamente degli effetti dell’impatto antropico sugli organismi marini –
Nel Mediteranneo stimiamo un quantitativo di 500 milioni di tonnellate di plastica, l’85% dei quali a noi invisibili, trovandosi soprattutto nei fondali. E troviamo costantemente microplastiche nei mammiferi, nei pesci e in diversi invertebrati, per esempio crostacei, spugne ed echinodermi: le nostre preoccupazioni non sono legate solo agli effetti diretti della plastica ingerita o respirata, quanto a quelli indiretti. Gli animali, delfini compresi, che ingeriscono o respirano microplastiche hanno a che fare con quello che in gergo definiamo ‘carrier’, vale a dire portatori di agenti chimici e sostanze tossiche che penetrano negli organismi attraverso la plastica e influiscono negativamente sulla salute degli animali”.