Un’antica nave incisa su una colonna di Palazzo Ducale. Un corno dogale, rosso, dipinto accanto alla Biblioteca Marciana. Una “pantegana” tracciata sulla pietra, sul pilastro di una casa sul Canal Grande (datata 1644). Scrutando i muri di Venezia, magari nella luce radente del tramonto, si può scoprire ancora oggi una straordinaria galleria di antichi graffiti degli abitanti della Serenissima.


Soprattutto in Piazza San Marco. Navi, animali, proverbi, slogan, – “Viva San Marco, viva la Repubblica”- Sono la testimonianza dal basso della quotidianità e delle tradizioni della città. Una storia raccontata più dai comuni cittadini che dai nobili veneziani.  Si stima siano oltre 6 mila quelli realizzati dal Quattrocento fino alla prima metà del secolo scorso. E un filo rosso sembra unire queste antichi segni ai writers dei nostri giorni, che con lo spray dicono la loro sui muri delle città, in un gesto spesso tacciato di “vandalismo”.

Alle antiche galee incise sulla pietra al tempo dei Dogi, rispondo oggi centinaia di ‘graffi’ e dipinti murali, che denunciano i moderni mali di Venezia:  il turismo di massa, le grandi navi da crociera, lo spopolamento. Fino ad arrivare ai capolavori: il “Bambino migrante”, col giubbotto di salvataggio e una torcia di segnalazione in mano, dipinto nottetempo da Banksy, sul muro a pelo d’acqua di un edificio in Rio Novo.

Venezia, viaggio per immagini tra i graffiti di ieri e di oggi

Delle seimila tra incisioni e dipinti ella Serenissima, circa 500 sono confluiti nel libro “I Graffiti di Venezia”, realizzato in cinque anni di ricerca e sopralluoghi da Alberto Toso Fei e Desi Marangon. Una mappatura di tutto ciò che è stato raffigurato su muri, marmi, legni, vetri della città e delle sue isole: dipinto a mano, inciso con uno scalpello, stampato sulla pietra con l’aiuto di una matrice. Si scopre così che quel galeone seicentesco – grande 40 centimetri – scolpito sul lato di Riva degli Schiavoni del Ducale, era una sorta di “annuncio di lavoro”, funzionale alla pratica del “ponere bancum”, con cui i capitani delle imbarcazioni, tra le colonne della Piazzetta e quelle del Palazzo dei Dogi, mostravano sul banco la paga di un marinaio, per invogliare i ragazzi a partire in mare. Le croci, da quelle più elaborate sulle colonne delle Procuratie Vecchie, alle più semplici, sono tra gli elementi più ricorrenti. Molte si riconoscono sugli stipiti delle porte delle case popolari: nel contesto veneziano, afflitto dalle epidemie di peste, significavano il benedire ciò che entrava e il tenere fuori ciò che era nocivo. Ci sono poi le tracce delle antiche campagne politiche: “Viva San Marco, viva la Repubblica” acclamano i graffiti sulle colonne vicino al Caffè Florian. Ritenuti per molto tempo falsi, in realtà testimoniano ciò che Daniele Manin riporta in uno dei suoi scritti, nel 1848, quando la città venne tappezzata di questi slogan che celebravano l’insurrezione contro gli austriaci.

(ansa)

Un po’ quello che avviene adesso, con i murales – tra i più belli quelli su perimetro del centro sociale ‘Morion’ – che mettono alla berlina le grandi navi, e l’overbooking turistico. “Turisti, morirete tutti” dice una delle tante scritte a bomboletta spray.

“L’istinto di lasciare un segno è antichissimo e risale ai primordi della nostra civiltà. E’ impossibile elencare i tanti motivi per cui si scrive – dice la storica e divulgatrice Desi Marangon – Una cosa è certa: l’idea di atto vandalico è estremamente riduttiva. Il binomio graffiti/vandalismo ci impedisce di leggere la complessità celata dietro il gesto di lasciare un segno di sè, di esprimere un’idea che a volte diventa virale. I graffiti ci raccontano il sentire collettivo, il modo in cui i veneziani del passato hanno vissuto la loro città, e quello in cui i veneziani di oggi vivono le sue problematiche, dal turismo di massa, alle acque alte, ai flussi migratori. L’istinto di scrivere sui muri è antichissimo, e nessun divieto potrà fermarlo”.