Vezio De Lucia, classe 1938, è un signore dolce. Dietro la sua mitezza c’è però uno spirito di ferro, un pensiero rigoroso, sobrio, senza ostentazioni e senza vanità. Si potrebbe quasi dire severo. È un grande urbanista, un intellettuale, un politico. Il suo ultimo libro si chiama “L’Italia era bellissima” e narra le vicende delle città e del paesaggio nell’Italia repubblicana.
Viene da una famiglia originaria di Buccino, un piccolo centro del Cilento, dove suo padre esercitava la professione di veterinario e dove lui, Vezio, ha vissuto gli anni della sua infanzia. Poi tutta la famiglia si trasferisce a Napoli, per le scuole dei ragazzi.
Perché Vezio?
“Non l’ho mai saputo. Mio nonno si chiamava Emilio e in effetti il mio nome è Vezio Emilio, poi è rimasto solo Vezio”.
Architettura era una vocazione?
“Tutt’altro. Quando mi iscrissi all’università, a Napoli, lasciai in bianco la scelta della facoltà. Oscillavo tra materie umanistiche, lettere, storia, filosofia e qualche volta mi è dispiaciuto non aver fatto quella scelta, e la geologia, il petrolio, l’energia. Poi finii ad architettura, forse perché avevo fatto il classico al Genovesi in Piazza del Gesù e architettura era lì a un passo, mi sembrava di rimanere a casa. Poi l’architetto non l’ho mai fatto”.
Come ha scelto tra l’architettura e l’urbanistica?
“La vita, gli interessi. Architettura era grandi nomi, la facoltà era infestata da una artisticità che mi disturbava, e poi nell’attività dell’architetto c’è un committente e un’opera, nell’urbanistica c’è la vita sociale, c’è la politica. E d’altra parte che si studi urbanistica nella facoltà di architettura è una cosa italiana, in Francia, per esempio, è legata alla geografia”.
Dopo la laurea?
“Cominciai come assistente universitario ma capii presto che non era per me. Presi un treno ed andai a Roma dove scoprii con grande sorpresa che trovare lavoro era facilissimo, c’erano persino annunci sui giornali alla ricerca di architetti. Ebbi contatti anche con la società che poi avrebbe costruito la Costa Smeralda ma alla fine scelsi l’Istituto Romano di Beni Stabili, un colosso che gestiva un immenso patrimonio di immobili in affitto. Forse anche in quella scelta contò il luogo, il mio ufficio era una stanza d’angolo della Galleria Colonna, dalla finestra vedevo le stanze di Palazzo Chigi”.
Fece carriera.
“Rischiai di farla, dopo pochi mesi mi offrirono la responsabilità dell’ufficio sviluppo e capii che mi sarei dovuto occupare di grandi speculazioni edilizie”.
Cosa le aprì gli occhi?
“Il crollo del centro di Agrigento, la grande frana del 1966. Non ci furono morti perché era stato un evento annunciato ma in qualche modo segnò una svolta. Il ministro dei Lavori Pubblici, il socialista Giacomo Mancini, incaricò il direttore generale del ministero Michele Martuscelli di fare una relazione su quanto era accaduto. Martuscelli produsse un documento esemplare nel quale si spiegava che all’origine della fragilità di quel territorio c’era la speculazione edilizia, che era la malattia di Agrigento come di quasi tutto il nostro paese, era così a Roma, a Napoli, a Palermo. Per la prima volta l’opinione pubblica seppe come stavano venendo su le nostre città. Mi dimisi da Beni Stabili e partecipai al concorso per urbanista che aveva indetto il ministero, arrivai primo, andai a lavorare con Martuscelli e cominciai la mia carriera di ministeriale”.
Un trauma?
“Tutt’altro. Erano gli anni delle riforme, la riforma della scuola secondaria, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma urbanistica era uno dei grandi miti del momento”.
Ma non è mai arrivata.
“Mai. La frana di Agrigento però aprì la strada alla Legge Ponte, cosiddetta perché doveva portarci alla riforma urbanistica e ne anticipava alcuni pezzi importanti come gli standard urbanistici con i quali si fissavano dei parametri, tanti metri quadri di verde per abitante, tanti di parcheggi, tanti di spazi pubblici, era una prima affermazione del diritto dei cittadini alla città. Fui uno degli autori di quel testo che da allora ha segnato la storia successiva dell’urbanistica. Mancini non era probabilmente impeccabile nella gestione del suo collegio ma fu un riformista vero, e questo non gli è stato riconosciuto”.
Perché la riforma urbanistica non è mai arrivata?
“C’erano gli interessi enormi della proprietà fondiaria e dei costruttori e avrebbe richiesto una forza e una coesione della politica che non c’era. Poi con il passaggio dell’urbanistica alle regioni una politica nazionale per le città non c’è più stata”.
I danni li abbiamo sotto gli occhi.
“Ci sono state delle eccezioni però. Con La Pira sindaco di Firenze e Dozza sindaco di Bologna sono state fatte cose egregie. L’assessore all’urbanistica della giunta Dozza era Giuseppe Campos Venuti e al suo successore Pier Luigi Cervellati si deve il piano per il centro storico di Bologna che fissava due principi fondamentali: che il centro storico andava tutelato nel suo complesso come monumento in sé e che non andava snaturato sociologicamente ma che doveva essere il luogo di investimenti nell’edilizia popolare. Il primo a scrivere che il centro storico era un blocco unitario perché prima del cemento armato e dell’acciaio si costruiva più o meno come al tempo dei faraoni era stato Antonio Cederna. Campos Venuti e Cervellati hanno realizzato quel concetto e aperto la strada. L’Italia è il paese che ha meglio tutelato l’integrità dei suoi centri storici e gli scempi avvenuti dalla fine della guerra sino ad allora furono bloccati”.
Ha detto che l’urbanistica è politica. Lei faceva politica?
“Non avevo né una appartenenza né facevo una militanza, la mia cultura politica era primitiva. Ma la politica era nelle scelte, l’urbanistica è una scienza sociale, riguarda la vita delle persone e delle comunità, tocca interessi giganteschi e le scelte che si fanno segnano il territorio per secoli”.
Come mai è diventato comunista?
“In quegli anni del primo centro sinistra dire urbanistica era dire Partito Socialista e io, al ministero dei Lavori Pubblici ero in un centro di potere formidabile. Conoscevo tutti e mi stupiva il fatto che grandi urbanisti, come per esempio Edoardo Detti a Firenze o Giovanni Astengo a Torino, che erano anche assessori, erano costantemente dentro lotte feroci anche e soprattutto intestine, interne al loro partito. Erano punte di diamante ma le lotte intestine mi facevano sembrare il Psi infrequentabile. I comunisti erano in minoranza, le loro punte erano Campos Venuti ed Edoardo Salzano, e mi sembrava che la situazione da quelle parti fosse più tranquilla. L’idea maggioritaria era al tempo che l’urbanistica fosse lo sviluppo della città, la loro idea era invece che l’urbanistica fosse la cura della città a partire dall’esistente”.
È stato assessore all’urbanistica anche lei, a Napoli, nella prima giunta di Antonio Bassolino.
“È stata una bella esperienza, facemmo cose importanti, per esempio salvare Bagnoli dalla cementificazione. Napoli con la giunta di Maurizio Valenzi e poi con Antonio Bassolino ha fatto scelte urbanistiche importanti. Il suo piano regolatore è l’unico di una grande città italiana che non prevede il consumo di suolo, che oggi dovrebbe essere la regola numero uno di ogni piano regolatore”.
Come si fa?
“Basta prendere la mappa della città e con un pennarello tracciare la linea tra il costruito e il non costruito e stabilire che dove non è costruito non si può più costruire”.
Semplice a dirsi.
“Oggi è anche più semplice a farsi. La spinta demografica non c’è più e siamo pieni di volumi che possono essere rigenerati per servire la domanda di alloggi che ancora esiste. La sensibilità ambientale è cresciuta ed è più facile spiegare che cementificare peggiora soltanto la situazione. E infine c’è il fatto che anche i costruttori hanno capito che il mercato è cambiato, che non ci sono nuovi quartieri da costruire perché non ci sarebbe nessuno ad abitarli e che per converso c’è un lavoro enorme si ricostruzione, rigenerazione, riabilitazione del patrimonio già costruito e troppo spesso costruito male. Zero consumo di suolo non vuol dire zero sviluppo, vuol dire fare le cose che servono, che sono tantissime. La cultura di quel mondo sta cambiando ed è oggettivo che oggi quel mondo pesi molto meno”.
Guardando dall’alto o anche solo girando per le strade sembra però che il danno sia fatto.
“È vero, siamo passati dalla cementificazione intensiva e dissennata a una cementificazione a bassa densità, le città si sfrangiano, in molti luoghi non c’è più il confine tra città e campagna. Ma molto si può ancora salvare, tanto più che di volumi nuovi non ce n’è bisogno”.
Nel suo ultimo libro “L’Italia era bellissima” lei dice che non ci sono le condizioni per intervenire in profondità. Quali sono queste condizioni?
“La condizione urbana non è soddisfacente ma non è più centrale. Non ci sono più protagonisti riconosciuti, non ci sono più risorse, senza la spesa pubblica non c’è la massa finanziaria necessaria per intervenire, appunto, in profondità. E non c’è più il pensiero lungo. L’urbanistica deve guardare lontano, gli orizzonti sono di lustri e di decenni e ci vuole una visione dalla quale dipenda un pensiero politico stabile quale a tratti è stato con i partiti novecenteschi e quale invece non è con i partiti del terzo millennio”.
Intervenire in profondità cosa vuol dire?
“Essenzialmente rimettere mano alle periferie, eliminare il carico di negatività che le squalifica, prendere pezzi di città e rifarli. La spesa pubblica dovrebbe essere il punto dipartenza, dovrebbe innestare focolai di qualità nelle zone degradate che poi attiverebbe azioni virtuose anche nei privati. Ma ci vorrebbero un modello di riferimento, risorse, competenze amministrative e soprattutto fiducia. Che non c’è”.
Fiducia nei confronti di chi?
“Degli interlocutori, soprattutto pubblici. Pensiamo ai quartieri degradati: molti sono figli dell’edilizia pubblica ma il degrado non dipende dalla qualità formale perché spesso sono opere di bravissimi architetti, dipende dalle assegnazioni degli alloggi non rigorose, dalle occupazioni e dall’abbandono che ne è conseguito”.
A noi oggi sembrano belli anche i pezzi meno pregiati dei nostri centri storici ma forse ai loro contemporanei sembravano brutti come sembrano a noi oggi le nostre periferie. È possibile che acquistino dignità con la vecchiezza? Che alle generazioni future sembrino belli?
“Ne dubito. I nove decimi dello spazio urbanizzato in quasi tutto il nostro Paese è stato costruito negli ultimi settant’anni senza forma e senza regole, tra abusivismo e speculazione, spessissimo senza cura e senza qualità e le città sono informi, senza confini percepibili con la campagna. Bisogna lavorare perché acquistino dignità nel presente”.