Tra i fattori che minacciano la salute degli ecosistemi in maniera pervasiva c’è la contaminazione da sostanze chimiche legate alle attività umane. Il caso più eclatante è senza dubbio quello delle microplastiche, ritrovate perfino negli angoli più remoti del nostro pianeta (dalle vette dell’Himalaya fino alle profondità degli oceani). Anche i pesticidi possono viaggiare per il mondo. La maggior parte, una volta impiegata sulle superfici coltivate, si degrada nel terreno. In altri casi i pesticidi si scompongono in nuove sostanze, non sempre innocue, alcune delle quali persistono nell’ambiente e finiscono nei sistemi fluviali e poi in mare, percorrendo chilometri.

Uno studio pubblicato sulla rivista Nature ha analizzato nel dettaglio questo fenomeno. Il principale autore è un italiano: Federico Maggi, vercellese, professore associato alla School of Civil Engineering dell’Università di Sydney. Lavora all’estero da più di 25 anni, “ma non mi sento un cervello in fuga”.

Dopo la laurea in ingegneria idraulica al Politecnico di Torino, ha svolto un dottorato a Delft (nei Paesi Bassi), proseguendo l’attività di ricerca alla Duke University, nella Carolina del Nord, e poi all’università di Berkeley, in California, approdando infine a Sydney nel 2009. Per la sua ricerca pubblicata su Nature è stato nominato National Champion per l’Australia all’edizione 2024 del Frontiers Planet Prize, il premio internazionale istituito dalla Frontiers Research Foundation per supportare le migliori ricerche nel campo della sostenibilità.


Un riconoscimento prestigioso, se lo aspettava?

“Da un lato, mi ha lasciato un po’ sorpreso, dall’altro mi rende orgoglioso di rappresentare l’Australia in questa occasione. Sicuramente questa nomination segna un’importante tappa del mio percorso professionale”.

Da dove nasce l’interesse per gli effetti sull’ambiente della contaminazione da pesticidi?

“In realtà nel mio background accademico non c’è l’agrochimica. Tutto è nato dai metodi investigativi più che dall’interesse per i pesticidi di per sé. Mi spiego meglio. La mia formazione da ingegnere idraulico mi ha permesso di sviluppare modelli matematici previsionali riguardanti principalmente il modo in cui l’acqua si muove in superficie e nel sottosuolo. Negli anni, dopo aver lavorato in vari istituti internazionali a contatto con ricercatori molto validi, ho iniziato a interessarmi ai processi che avvengono nel suolo e all’azione dei microrganismi che riescono a scomporre sostanze inquinanti, come i pesticidi per l’appunto. E così ho espanso i mei modelli computazionali per includere anche i processi di biogeochimica dei pesticidi”.


Nello specifico, come è nata la ricerca pubblicata su Nature nel 2023?

“Io e i miei collaboratori siamo partiti da una semplicissima domanda: dove vanno a finire i pesticidi utilizzati in agricoltura dopo che sono stati dispersi nell’ambiente? Sono certo che non siamo stati i primi a porci questa domanda, ma penso anche che per ora siamo gli unici ad aver sviluppato metodi previsionali adeguati per dare una risposta il più possibile precisa e globale. Ci sono molti parametri chimico-fisici per elaborare una modellistica ambientale accurata e soprattutto realistica. È stato un lavoro complesso, ci sono voluti più di 4 anni di ricerca”.


Ci può spiegare più nel dettaglio la metodologia impiegata per tracciare una mappa globale degli “spostamenti” dei pesticidi dal loro utilizzo in ambito agricolo fino al loro punto di arrivo?

“In estrema sintesi, ho sviluppato una copia digitale dell’intero pianeta (Planetary Digital Twin), ovvero un modello matematico che riesce a descrivere i processi ambientali di interesse nello spazio e nel tempo, in superficie ma anche nel sottosuolo. Con questo strumento, che è unico nel panorama di ricerca ambientale a livello internazionale, io e i miei collaboratori abbiamo tracciato l”odisseà dei pesticidi dal loro punto di applicazione in campo fino a raggiungere i fiumi e poi gli oceani. I residui dei pesticidi sono letteralmente ovunque e possono percorrere centinaia di chilometri attraverso le vie d’acqua. Le potenziali applicazioni del nostro Planetary Digital Twin non si limitano ai pesticidi. Lo stiamo utilizzando anche per studiare i fertilizzanti, e lo abbiamo già impiegato per effettuare stime sulla scarsità di acqua negli scenari dell’IPCC e sulle emissioni di gas serra”.

Quali sostanze e principi attivi avete studiato in particolare?

“Il numero di prodotti fitosanitari è altissimo: parliamo di migliaia di molecole utilizzate in ambito agricolo nel mondo, ognuna con la sua formula e le sue proprietà. Noi ci siamo focalizzati su circa 90 sostanze, che rappresentano grosso modo l’85% della massa totale annua usata in agricoltura (l’equivalente di circa 2,5 milioni di tonnellate ogni anno). Tra di loro ci sono, per esempio, l’ormai celebre glifosato e l’atrazina, un erbicida bandito dall’Unione Europa nel 2004 ma utilizzato ancora oggi in altre parti del mondo, come negli Stati Uniti, in Canada e in Australia”.


Come avviene la degradazione di queste sostanze nell’ambiente?

“Come dicevo, ognuna ha un comportamento peculiare una volta rilasciata nell’ambiente. Generalmente i pesticidi vengono degradati dai microorganismi del suolo, ma anche attraverso altri meccanismi, per esempio reagendo con le sostanze che intercettano oppure con la radiazione solare ultravioletta. Abbiamo stimato che l’82% dei volumi usati globalmente in un anno si degrada biologicamente. Il 10% rimane sulla superficie del suolo come residuo, il 7% penetra nelle falde acquifere e lo 0,1% nei fiumi e negli oceani”.


Sembrerebbero cifre basse, perché invece sono significativi questi dati?

“Perché non conosciamo ancora bene lo spettro completo di sostanze che vengono prodotte in seguito al processo di degradazione dei pesticidi. Questi ultimi non scompaiono, ma producono ‘a cascatà altre sostanze che nel nostro studio non abbiamo potuto tracciare, dal momento che sono numerosissime. Solo dall’atrazina, per esempio, si producono una quindicina di molecole, di cui 3-4 sono tossiche tanto quanto la molecola madre. Per il glifosato vale un discorso simile.


Quali sono i danni per gli ecosistemi?

“I moderni pesticidi sono sostanze altamente ingegnerizzate per poter sopprimere forme biologiche (piante, insetti, funghi, batteri eccetera) che possono arrecare un danno alle coltivazioni. Le conseguenze sono rilevanti anche per gli organismi che non sono il target del pesticida, ma che in qualche modo rispondono a quello che in gergo viene definito “mode of action” (ovvero il meccanismo d’azione, ndr) di una sostanza attiva. La letteratura scientifica è particolarmente ampia nel dimostrare come alcuni pesticidi abbiano un effetto rilevante sul declino di certe specie, come nel caso degli insetti impollinatori o degli anfibi”.


Quali dovrebbero essere gli interventi di policy per limitare il problema?

“Si discute su varie strategie, ma non esiste ancora uno standard internazionale a cui tutti i Paesi del mondo possano aderire. Tra le iniziative più importanti c’è sicuramente il Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework, che mira a ridurre il rischio dei pesticidi di almeno il 50%. Un buon esempio è la Nature Restoration Law, che pone obiettivi vincolanti per ripristinare gli ecosistemi all’interno dei Paesi dell’Unione europea. In aggiunta a queste iniziative, che reputo fondamentali, penso che a livello istituzionale bisognerebbe prendere in seria considerazione gli effetti negativi sulla salute pubblica e formalizzare limiti di esposizione molto più stringenti, data la presenza così pervasiva dei residui di pesticidi nell’ambiente”.


Nei prossimi anni proseguirà la ricerca su questo tema?

“Certamente, ho ancora alcune ipotesi da testare. E poi sono io stesso il primo a volerne sapere di più”.