Oltre ai proiettili destinati agli animali, da cacciare come trofeo, ora ci sono anche quelli sparati verso i Masai, da allontanare dalle loro terre ancestrali. Si spara vicino al Serengeti, la “pianura che non finisce mai” come l’hanno chiamata i popoli originari, quei Masai che lì sono nati e cresciuti e che dal tempo della colonizzazione britannica, in Tanzania, vengono ancora oggi allontanati. Ora però il governo della Tanzania, unito ad alcune grandi società degli Emirati Arabi e persino a enti di conservazione della natura, a inizio giugno ha accelerato i suoi piani di sgombero: nella zona di Loliondo il 10 giugno si sono presentati 700 uomini della polizia e le forze armate, intimando ai Masai di andarsene, mettendo picchetti per delimitare le terre e alla fine, nonostante una protesta pacifica dei pastori, hanno anche aperto il fuoco o brandito i machete: 31 persone sono rimaste ferite, altre sono fuggite, altre ancora vengono aiutate da medici arrivati dal Kenya, dato che in Tanzania – dovendo passare per la polizia – non sarebbero curate. Inoltre, alcune voci riferiscono di una persona deceduta.
Il contesto di sangue a cui si è arrivati nell’Africa dell’est è frutto di una lunga battaglia iniziata già nel 2009. Da una parte ci sono il governo della Tanzania, insieme ai vertici della Otterlo Business Corporation, società di Dubai interessata alle terre Masai per sviluppare un turismo di lusso, esclusivo, dove anche i membri della famiglia reale degli Emirati possono imbracciare un fucile per ottenere qualche testa di animale da appendere.
L’idea è quella di creare un’area protetta per la “conservazione animale”, il turismo da safari ma anche la caccia sportiva, di circa 1500 chilometri quadrati. In quella zona, come nei pressi di Loliondo, vivono però tra i 70mila e gli 80mila Masai, molti dei quali figli di coloro che in passato furono allontanati dal Serengeti nel 1959.
Fiore Longo, ricercatrice di Survival International da poco tornata dalla Tanzania, racconta a Green&Blue che “i Masai rischiano lo sfratto sia dalla zona di Ngorongoro, sia da quella di Loliondo. In quest’ultima la situazione è particolarmente tesa. I 1500 chilometri quadrati erano registrati come terre Masai, ma di recente il governo ha cambiato lo statuto definendola come game control area, ovvero è permessa la caccia al trofeo. Così in quest’area esclusiva per caccia e conservazione ora le attività pastorali o le abitazioni dei Masai non sono più possibili”.
Nonostante siano i Masai da tempo a prendersi cura di quei territori, come del resto i popoli originari fanno già dalla Amazzonia all’India senza sconvolgere gli ecosistemi e preservando acqua ed equilibri, la loro presenza non viene ben vista da turisti e persino da alcune associazioni impegnate nella conservazione della biodiversità. “Per i Masai di Ngorongoro il governo parla di case dove trasferirli a centinaia di chilometri di distanza, mentre per Loliondo non è nemmeno prevista una alternativa” spiega Fiore. Il problema è che i Masai – come molti altri indigeni – hanno un legame ancestrale, un rapporto strettissimo con le loro terre: “Per loro è impossibile pensare di andarsene. Vivono di pastorizia, vivono di un rapporto profondo con animali e vegetazione, che per loro sono sacri, così come con i terreni dove seppelliscono i loro morti. Un trasloco ucciderebbe un’intera cultura”.
La posizione ufficiale del governo è invece quella di voler creare aree protette “per la conservazione” dove non possa vivere l’uomo e il ministro del turismo della Tanzania, Damas Ndumbaro, ha affermato che i Masai non hanno un diritto di quelle terre poiché “tutta la terra appartiene al presidente”.
Longo, che ha parlato a lungo sia con i leader Masai sia con gli enti governativi, spiega che “in realtà in quelle terre è già permessa la caccia al trofeo: turisti benestanti e persone con molti soldi non gradiscono però la presenza di persone e case, dei pastori con le mucche, e per questo motivo da tempo chiedono di spostare gli abitanti”.
La ricercatrice, che ha condotto campagne anche in Asia e Sudamerica, sostiene che “buona parte della storia della conservazione è fatta da cacciatori. Persone che hanno aperto riserve naturali con l’idea di fondo di proteggere la fauna da chi caccia per mangiare ma permettendo invece una caccia trofeo regolata. Eppure, i Masai non cacciano per nutrirsi, sono soprattutto pastori. Ma in Africa i turisti vengono visti come più importanti, perché è con i loro soldi che si alimentano i fondi per ‘proteggere la natura’. Questo modello però a mio avviso non funziona ed è spesso un sistema razzista e coloniale che tende solo ad allontanare i popoli locali”. In realtà, dietro agli ultimi episodi di violenza appena avvenuti, potrebbe esserci una preoccupazione precisa da parte dell’esecutivo della Tanzania.
Sia nel 2009 che nel 2017 ci furono tentativi importanti di sfratto, ma i Masai riuscirono a resistere. Cinque anni fa però gli indigeni fecero una denuncia alla Corte di Giustizia dell’Africa dell’Est, che emise una prima ingiunzione a loro favore, decisione che deve essere confermata da una sentenza proprio a fine giugno. “Tutto fa pensare che ci sia un collegamento tra le violenze e la causa, – spiega Longo – forse perché la Corte potrebbe essere nuovamente a favore dei Masai e porre fine ai piani del governo”.
Per Survival International la ricercatrice è in costante contatto con alcuni dei Masai aggrediti. “Mi dicono che molti sono in fuga, altri perseguiti solo perché hanno girato video delle brutalità delle forze armate. Dieci persone sono state arrestate. Gli altri hanno paura”. Sembra un paradosso, ma è così: nel cuore della Tanzania c’è molta più paura dell’uomo che del leone.
“I Masai convivono con gli animali da sempre e conoscono la fauna selvatica: qualche volta i felini predano le mucche, ma fa parte della vita quotidiana di quelle terre. Una vita che ora altri, per questioni di soldi, non vogliono che continui. La storia dei Masai – conclude Longo – dovrebbe dunque essere emblematica per richiamare l’attenzione su un modello di conservazione della Natura vecchio stampo che deve assolutamente essere cambiato: gli studi scientifici ci dicono che le persone originarie sanno proteggere la natura e la biodiversità meglio di chiunque altro. E allora perché continuiamo ad allontanarle?”.